La condanna di Sanjay Dutt
La storia di cui si parla di più in India, a parte i marinai italiani: inizia con l'attentato del 1993 a Bombay, c'entrano la mafia, i servizi segreti pakistani e una star del cinema
Giovedì 21 marzo la Corte suprema indiana ha ridotto da 6 a 5 anni la condanna all’attore Sanjay Dutt, star di Bollywood, per il suo coinvolgimento nell’indagine sull’attacco terroristico del 1993 a Bombay (che dal 1995 è diventata Mumbai). Dutt aveva già trascorso 18 mesi in carcere, prima di essere rilasciato in libertà vigilata in attesa della sentenza di appello: per questo dovrà scontare ancora 3 anni e mezzo di prigione.
In realtà Dutt non è considerato un terrorista dalle autorità indiane: il suo legame con le bombe del 1993 fa riferimento al possesso di alcune armi che gli erano state consegnate da Dawood Ibrahim, capo di una gang della mafia di Mumbai che poi si rivelò essere il pianificatore degli attentati. La sua grande popolarità ha però fatto sì che molti giornali indiani seguissero il caso delle bombe di Bombay attraverso le sue vicende giudiziarie.
Le indagini sull’attentato iniziarono nel 1993 e furono molto lunghe e complesse. Rivelarono molte cose che vale la pena raccontare: il presunto coinvolgimento dei servizi segreti pakistani nell’organizzazione dell’attacco, la strana vicenda di uno dei responsabili della progettazione dell’attentato, il revisore dei conti Yakub Memon, e il legame allora molto stretto tra criminalità organizzata e Bollywood.
La storia delle bombe
Tra il dicembre del 1992 e il gennaio 1993 a Bombay ci furono diverse manifestazioni organizzate da moltissimi musulmani che protestavano per la distruzione della moschea di Babri, a Ayodhya, nell’India nord-orientale. La moschea era stata distrutta da alcuni fanatici induisti. L’incidente provocò moltissimi scontri tra induisti e musulmani: cinque anni dopo una commissione istituita dal governo dello stato indiano di Maharashtra, a cui apparteneva Bombay, stimò che negli scontri morirono circa 900 persone e ne rimasero ferite altre 2000.
Come risposta alla distruzione della moschea di Babri, e agli scontri che ne seguirono, il 12 marzo 1993 alcuni terroristi fecero esplodere 13 bombe in diversi luoghi della città di Mumbai, nel giro di sole due ore, provocando la morte di 257 persone e il ferimento di altre 713. Quell’attentato è ancora oggi il più violento della storia dell’India. Gli attacchi vennero coordinati da Dawood Ibrahim, il capo della D-Company, un gruppo della criminalità organizzata indiana (e prevalentemente musulmana) che aveva molti collegamenti anche all’estero. Ibrahim organizzò gli attacchi con l’aiuto di un suo sottoposto, Tiger Memon, che al tempo era un trafficante di argento e membro della D-Company.
I finanziamenti per l’attentato vennero coordinati dal fratello di Dawood, il revisore dei conti Yakub Memon, che si occupò di organizzare il flusso di denaro che arrivava da diversi trafficanti indiani sia residenti in India che espatriati all’estero. La figura di Yakub divenne in seguito fondamentale nelle indagini, perché grazie alla sua collaborazione la polizia indiana riuscì a catturare molti membri della sua famiglia accusati di complicità nell’attentato e che si nascondevano dalle autorità.
I processi di primo e secondo grado
La prima sentenza arrivò dal tribunale del TADA (Terrorists and Distruptive Activities Prevention Act) nel 2006, e condannò 100 delle 129 persone accusate di essere state coinvolte in diversi modi nell’organizzazione o nell’esecuzione degli attentati del 1993. Il tribunale allora subì molte pressioni, soprattutto per la gravità del reato e per la complessità delle indagini. Inoltre molti credettero che Dutt, essendo una celebrità, avesse ricevuto un trattamento privilegiato da parte dei giudici.
Molti dei condannati fecero riscorso in appello. La sentenza della Corte Suprema è stata letta giovedì 21 marzo: molte condanne sono state ridotte, tra cui quella di Dutt, e la condanna a morte per 10 persone stabilita dal TADA è stata trasformata in ergastolo. L’unico a cui non è stata cambiata la condanna a morte è Yakub Memon, che agì come una specie di direttore finanziario nelle attività di contrabbando del fratello, Tiger Memon. Yakub fornì i soldi per i veicoli che furono poi riempiti di esplosivo e si occupò del trasferimento di alcuni membri della D-Company in Pakistan per attività di addestramento.
Il coinvolgimento del Pakistan
Nel corso degli anni le inchieste della magistratura indiana hanno verificato l’esistenza di alcuni legami molto significativi tra gli organizzatori degli attentati e il Pakistan, in particolare i servizi segreti pakistani (ISI). Anzitutto la D-Company era sospettata di avere diversi legami con alcuni gruppi terroristici pakistani legati ad al Qaida, come ad esempio Lashkar-e-Toiba. Secondo le autorità indiane questi legami vennero sfruttati ancora prima dell’attentato, quando diversi membri della D-Company andarono in Pakistan per essere addestrati da gruppi non bene identificati a maneggiare esplosivi e a gestire attacchi terroristici.
Diverse ore prima lo scoppio delle bombe a Mumbai, Tiger volò di nuovo in Pakistan accompagnato da ben tre generazioni di familiari. Tiger, che insieme a Dawood Ibrahim è ancora oggi latitante, si sarebbe trasferito in Pakistan per sfuggire all’arresto in India. Quando il fratello Yakub tornò in India nel 1994, consegnò alle autorità indiane delle prove video e audio che mostravano come le autorità pakistane avessero accolto la famiglia di Yakub e Tiger con straordinaria ospitalità: tra le altre cose, gli avrebbero donato una sontuosa villa con 20 stanze a Karachi. La vicenda personale di Yakub è una delle cose meno chiare dell’intera storia giudiziaria di questo processo: Yakub, che collaborò con le autorità indiane tornando spontaneamente in India dal Pakistan, fu anche l’unico presente al processo la cui condanna di morte stabilita in primo grado venne confermata anche in appello.
Ad ogni modo, durante il processo di primo grado, l’accusa sostenne che erano stati i servizi segreti pakistani a fornire l’esplosivo e ad addestrare i membri della D-Company per l’attentato. Questa versione è stata riconfermata anche durante il processo d’appello.
La mafia di Mumbai, Bollywood e la criminalità
Ai tempi dell’attentato, il settore cinematografico indiano e la criminalità organizzata di Bombay erano molto legati. I gangster non finanziavano solo le produzioni dei film, ma volevano avere voce in capitolo anche sulla scrittura delle sceneggiature e sulle modalità di distribuzione. Fu solo nel 2001, quando il governo indiano riconobbe ufficialmente l’esistenza di un’industria cinematografica (quindi che poteva ricevere anche ingenti finanziamenti da parte delle banche), che la mafia di Mumbai allentò di molto la presa su Bollywood.
Le inchieste iniziate dopo le bombe del 1993 non furono le prime in cui la polizia indiana trovò dei legami tra mafia e Bollywood: fu però il primo caso in cui delle celebrità del mondo cinematografico indiano, l’attore Sanjay Dutt e i registi Samir Hingora e Hanif Kadawala, venivano arrestate. Il caso di Dutt è piuttosto particolare: l’attore non fu certo uno degli organizzatori degli attentati ma i giornali parlarono molto di lui, per via della sua popolarità e perché in precedenza era stato condannato per la detenzione illegale di alcune armi (un fucile AK-56 e una pistola calibro 9) che gli erano state date da Dawood Ibrahim poco prima degli attentati.
Dopo la sentenza di appello, Dutt ha detto di essere “distrutto” dall’idea di dover tornare in prigione. Molte persone in India si sono già schierate a favore di Dutt: l’opinione più autorevole è stata quella di Markandey Katju, ex giudice molto rispettato della Corte suprema indiana, che si è rivolto direttamente al governatore dello stato di Mahasashtra per chiedere che all’attore venga concesso il perdono. Al momento le autorità indiane non hanno escluso questa opzione, e hanno detto che valuteranno quando verrà fatta la richiesta ufficiale da parte di Dutt.