La guerra in Iraq, 10 anni fa
Le foto dell'intervento militare iniziato il 20 marzo 2003 e i bilanci pubblicati in questi giorni dalle maggiori testate italiane e internazionali, tutti pessimisti
Più o meno alle 5 di mattina, ora locale irachena, del 20 marzo 2003 iniziava la guerra in Iraq. Il paese fu invaso da una “coalizione di volenterosi”, come la definì l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, formata per la maggior parte da Stati Uniti e Regno Unito, e con contingenti minori di altri stati tra cui l’Australia, la Polonia, la Spagna e l’Italia.
L’intervento venne giustificato sulla base di un approccio che passerà alla storia come “guerra preventiva” (la dittatura di Saddam Hussein era accusata di nascondere e sostenere militanti di al Qaida e possedere armi di distruzione di massa) e “esportazione della democrazia”, nella convinzione che – parole di Bush – “per proteggere la libertà in America bisogna proteggere la libertà ovunque”, che non si poteva più “barattare la stabilità con la libertà”, che la democrazia avrebbe portato libertà, che la libertà avrebbe portato prosperità e laicità, e queste cose insieme avrebbero combattuto il terrorismo. La tesi si richiamava anche all’interventismo umanitario di Clinton e dei democratici, e fu guardata con interesse anche anche da pezzi della sinistra americana, seducendo intellettuali e giornalisti come Paul Berman e Christopher Hitchens. La risoluzione del Congresso statunitense che approvò l’intervento militare fu votata da praticamente tutti i repubblicani e quasi la metà dei democratici.
La decisione di Bush e Tony Blair, all’epoca primo ministro britannico, venne criticata molto dalla comunità internazionale. Nonostante la mancanza di un’autorizzazione formale da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, 200.000 soldati vennero mandati in Iraq nel marzo del 2003. In soli 21 giorni Baghdad venne conquistata e Saddam Hussein rimosso dal potere. Da allora, fino al 15 dicembre 2011, le truppe straniere sono rimaste in Iraq per affrontare la guerriglia dei gruppi, principalmente sunniti, ancora fedeli a Saddam. Oggi l’Iraq non si può considerare un paese “pacificato”, a causa dei numerosi attacchi e attentati che a cadenza quasi quotidiana avvengono nel paese.
Le principali testate americane hanno dedicato ampi approfondimenti sui 10 anni di guerra in Iraq ieri, il 19 marzo, considerato che a causa del fuso orario negli Stati Uniti i primi attacchi della coalizione su Baghdad vennero fatti quel giorno. Molti altri giornali, soprattutto quelli di paesi mediorientali, hanno pubblicato oggi degli articoli di “bilancio” di questi 10 anni di guerra. La maggior parte di questi è partito dalla notizia di una dozzina tra autobombe e attentati suicidi che hanno causato la morte di più di 50 persone nei quartieri sciiti a sud e al centro di Baghdad, la capitale irachena.
La NBC ha sintetizzato in un breve paragrafo qual è la situazione attuale dell’Iraq:
«Sotto la dittatura di Saddam Hussein, un sunnita, i membri delle comunità sciita e curda venivano oppressi violentemente (Hussein oppresse anche i sunniti). Dalla caduta di Saddam, le maggioranze sciite sono diventate il gruppo dominante nella società irachena. Il governo del primo ministro Nouri al-Maliki è stato accusato di fomentare le divisioni settarie per assicurare la posizione del suo partito al potere»
Nel suo lungo approfondimento, la NBC ha individuato un altro punto molto discusso in questi anni soprattutto dalla stampa specializzata su questioni mediorientali: la guerra ha costretto il governo e le imprese irachene a varare molti piani di ricostruzione, che per buona parte sono stati appaltati ad aziende iraniane. L’invasione in Iraq avrebbe quindi rafforzato il ruolo dell’Iran nella regione del Golfo Persico, piuttosto che indebolirlo.
L’importanza dell’Iran nella fase di ricostruzione irachena è stata ripresa anche da un commento scritto dal fotografo George Packer e pubblicato ieri sul New Yorker. Packer, che si è occupato di numerosi reportage sull’Iraq per il New Yorker durante il periodo della guerra, ha scritto:
«Quando gli ultimi soldati americani partirono dall’Iraq poco più di un anno fa, non c’era nessun sentimento di trionfo o soddisfazione, ma solo tristezza e sollievo. L’Iraq è rimasto un paese molto violento. Le sue politiche sono orientate verso l’Iran e verso un più ampio fronte sciita appartenente ad una incombente guerra regionale. Dopo due miliardi di dollari, migliaia di vite americane, e oltre centinaia di migliaia di vite irachene, l’America ha un’influenza in Iraq così limitata che non riesce nemmeno a convincere il governo di Baghdad a impedire il passaggio di armi iraniane attraverso il territorio iracheno e dirette ai soldati siriani di Bashar al Assad. L’Iraq ha rifiutato il trapianto di organi e va per la sua strada. Immagino che ci siano molte meno tracce lasciate dagli americani a Baghdad rispetto a quante vennero lasciate a Saigon nel 1975»
Il tema delle divisioni settarie nel paese è quello ripreso con più frequenza dai siti di news internazionali: l’agenzia Reuters ha scritto di come l’Iraq stia ancora combattendo contro i ribelli, le tensioni settarie e le faide politiche tra le diverse fazioni sciite, sunnite e curde che condividono il potere nel governo. Il quotidiano libanese Daily Star, che dedica oggi diversi articoli sull’anniversario della guerra, ha spiegato come gli attacchi più violenti in Iraq negli ultimi anni siano stati rivendicati da militanti sunniti legati ad al Qaida, che stanno cercando di destabilizzare il governo sciita di Nuri al Maliki.
Più che al fronte dei ribelli sunniti, Al Jazeera, di proprietà dell’emiro del Qatar, ha dedicato ampio spazio alle testimonianze di alcune persone che sono state torturate dalle forze di sicurezza irachene (e in qualche caso anche estere) nei centri detentivi sparsi per tutto il paese. Al Jazeera ha citato un rapporto di Amnesty International pubblicato l’11 marzo 2013 che spiega nei dettagli come alla guerra settaria il governo abbia risposto con incarcerazioni arbitrarie, processi ingiusti, torture ed esecuzioni. Un estratto dell’inchiesta del Guardian e della BBC araba sulla responsabilità delle torture nei centri detentivi iracheni era stata pubblicata il 7 marzo scorso dal sito del Guardian.
Il giornalista americano Peter Baker ha pubblicato oggi sul New York Times un articolo intitolato “Iraq War’s 10th Anniversary Is Barely Noted in Washington”. Baker, come si intuisce dal titolo, critica duramente sia i repubblicani che i democratici per avere scelto di non parlare della guerra in Iraq nel decimo anniversario del suo inizio. Parla di “cospirazione del silenzio”, sostenendo che nessuno negli Stati Uniti ha davvero interesse ad approfondire cosa è successo in Iraq e cosa non ha funzionato.
Altri siti internazionali hanno scelto di raccontare i dieci anni della guerra in Iraq attraverso le immagini: lo hanno fatto il Wall Street Journal, con 54 fotografie che ripercorrono le tappe più importanti dell’invasione americana e della guerriglia che ne è seguita, e l’Atlantic, che ha deciso di raccontare la guerra in Iraq pubblicando in tre giorni diversi (ieri, oggi e domani) le fotografie delle tre fasi del conflitto: l’invasione, la guerriglia, e il periodo successivo al ritiro delle forze della coalizione.
Dei tre principali quotidiani italiani, la Repubblica, il Corriere della Sera (che però ricordiamo, è in sciopero) e la Stampa, solo la Stampa ha dedicato un articolo all’Iraq nel giorno del decimo anniversario dell’invasione, e lo fa raccontando come affrontarono l’inizio della guerra quattro generali americani, gli stessi che convinsero la Casa Bianca della necessità di un attacco: Tommy Franks, David Petraues, Richard Myers e Colin Powell. Con largo anticipo, il 12 marzo, Repubblica aveva pubblicato un “fotoracconto” sui 10 anni di guerra in Iraq.