E cos’è il vincolo di mandato?
Un tema citato più volte da Beppe Grillo, per criticare i parlamentari che non seguono le indicazioni: cosa prevede la Costituzione, da dove viene e come funziona negli altri paesi
di Francesco Marinelli – @frankmarinelli
Nella votazione di sabato 16 marzo per l’elezione del presidente del Senato, una decina di parlamentari del Movimento 5 Stelle (13 secondo quanto è stato riportato dai giornali) hanno votato per Pietro Grasso, il candidato del centrosinistra. Vito Crimi, capogruppo M5S al Senato, ha spiegato in un video la decisione presa dal gruppo, che in sostanza era: si può votare per Pietro Grasso, scelta libera. Questo episodio ha fatto tornare di attualità una caratteristica del ruolo del parlamentare che è stata citata più volte da Beppe Grillo e che ha diversi aspetti notevoli: l’assenza del vincolo di mandato, espressione tecnica per indicare in realtà una cosa molto concreta.
Partiamo dal caso di Grillo. In serata, il leader del Movimento 5 Stelle ha pubblicato un post sul proprio blog in cui ha criticato il comportamento dei senatori del M5S che a suo dire non avrebbero votato con “trasparenza”. Oltre a sottolineare la “defezione” dalla linea del partito – che fino a oggi è stata di non fare accordi con gli altri partiti presenti in Parlamento – Grillo ha scritto che il segreto del voto «non ha senso» perché «l’eletto deve rispondere delle sue azioni ai cittadini con un voto palese». Inoltre, i senatori che hanno votato per Pietro Grasso, preferendolo a Schifani e preferendolo alla scheda bianca, avrebbero infranto una delle regole scritte nel codice di comportamento degli eletti del Movimento 5 Stelle.
Il codice, «sottoscritto liberamente da tutti i candidati», scrive Grillo, dice al punto che riguarda il tema della trasparenza: “votazioni in aula decise a maggioranza dei parlamentari del M5S”. A partire da questo punto, sostiene Grillo, i senatori che non lo hanno rispettato, o meglio, «se qualcuno si fosse sottratto a questo obbligo», avrebbe mentito agli elettori. Conclude scrivendo: «spero ne tragga le dovute conseguenze», intendendo forse la possibilità, per questi senatori, di rassegnare le dimissioni. Con questo post, Grillo è tornato a citare il tema del vincolo di mandato – secondo cui l’eletto deve rispondere delle sue azioni ai cittadini, che in Italia è espressamente vietato – che già aveva citato e criticato in un’altra occasione: il 3 marzo 2013 Grillo aveva scritto sul proprio blog che «il voto è un contratto tra elettore ed eletto», citando l’articolo 67 della Costituzione.
Che cos’è il vincolo di mandato
L’articolo 67 dice: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Si stabilisce cioè che i parlamentari eletti sono liberi di esercitare le loro funzioni senza essere obbligati a votare come dice loro il partito con cui sono stati eletti. Nell’ultima riga del suo post, Grillo ipotizzava anche la possibilità che l’eletto, non avendo obblighi e vincoli, può mentire agli elettori «senza alcuna conseguenza invece di essere perseguito penalmente», come potrebbe accadere a chi non rispetta un contratto privato. Tra l’altro, nel 2010, Grillo aveva dichiarato una cosa diversa, quando chiese le dimissioni dalla presidenza della Camera per Gianfranco Fini: «L’articolo 67 della Costituzione è molto chiaro. Chi è eletto risponde ai cittadini, non al suo partito».
L’articolo 67 della Costituzione fu concepito per garantire la libertà di espressione ai membri del Parlamento: il legame tra l’eletto e gli elettori viene dunque concepito come “responsabilità politica”, non come un “mandato imperativo”, che è vietato. La libertà da questo vincolo, ha spiegato Cesare Mirabelli – ex presidente della Corte Costituzionale – è molto particolare, soprattutto se la si lega ai temi etici o alle decisioni che i parlamentari potrebbero dover prendere nel caso in cui scoppiasse una guerra.
A livello giuridico, il cosiddetto “mandato imperativo” che sembra volere Grillo è l’opposto del libero mandato. Quest’ultimo è stato teorizzato per la prima volta da Edmund Burke nel Discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774: Burke sosteneva che, in difesa dei principi democratici, era sbagliato che gli eletti dovessero comportarsi esclusivamente a difesa degli interessi dei propri elettori. Fu in seguito sancito a livello costituzionale e per la prima volta nella Costituzione francese del 1791. Il divieto di mandato imperativo era contenuto anche nello Statuto Albertino, nell’articolo 41:
I Deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori.
Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, tra il 1946 e il 1947, la questione del libero mandato venne discussa ampiamente. Uno dei relatori, il giurista Costantino Mortati, disse: «Sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari significa che esso non rappresenta il suo partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme». Questo, poi adottato a maggioranza, era il senso di quel principio tutelato nella Costituzione entrata in vigore nel 1948.
Il parlamentare, quindi, non può accettare alcuna istruzione o direttiva quando esercita le sue funzioni: può agire liberamente e non esiste alcun mezzo giuridico per costringerlo a rispettare eventuali accordi, né lo si può citare in giudizio a rispondere del suo comportamento e delle sue scelte. Anche, dunque, se ha sottoscritto il codice di comportamento degli eletti del Movimento 5 Stelle. Lo ha stabilito anche una sentenza della Corte Costituzionale (n. 14 del 1964):
Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito.
Grillo ha scritto che chi non segue le direttive del partito con il quale è stato eletto dovrebbe “essere perseguito penalmente e cacciato a calci dalla Camera e dal Senato”. La nostra Costituzione però non prevede la revocabilità del mandato, neanche da parte degli elettori. Un’altra conseguenza molto importante di questo divieto dà anche la possibilità ai parlamentari italiani, in modo del tutto legittimo, di cambiare gruppo parlamentare, passando da un partito all’altro, di passare al gruppo misto, di formare un nuovo gruppo parlamentare.
Inoltre, in base ai regolamenti parlamentari di Camera (articolo 83, comma 1) e del Senato (articolo 84, comma 1) il singolo parlamentare può parlare in Parlamento, anche a titolo personale, in disaccordo con le posizioni del gruppo a cui appartiene. Il divieto di mandato imperativo è presente oggi nella Costituzione francese (articolo 27, comma 1), in Germania (articolo 38, comma 1 della Legge Fondamentale), nella Costituzione spagnola (articolo 67, comma 2) e in quasi tutte le democrazie rappresentative.
Il mandato imperativo c’è soltanto in quattro paesi: Portogallo, Bangladesh, India e Panama, come ha spiegato il Sole 24 Ore: in Portogallo, ad esempio, chi lascia il suo gruppo in Parlamento cessa di essere parlamentare. Negli altri paesi, il parlamentare perde il seggio se si dimette dal gruppo parlamentare e in più vota se vota in modo diverso dalle indicazioni del partito con cui era stato eletto.
Foto: Giorgio Cosulich/Getty Images