La dura vita del freelance digitale
Un ampio dibattito su siti, blog e Twitter a proposito del ruolo del freelance in un contesto di crisi
di Vincenzo Marino - IJF2013
Questa settimana il dibattito giornalistico online si è sviluppato soprattutto attorno al caso che ha visto coinvolti il giornalista Nate Thayer e The Atlantic. Thayer ha infatti pubblicato lunedì scorso il testo dell’intera conversazione con una editor del magazine, Olga Khazan, che gli aveva proposto di inserire un suo pezzo sui rapporti tra basket e diplomazia con la Corea del Nord nella loro versione online, da editare e ridurre a 1200 parole dalle 4 mila iniziali a titolo gratuito.
«Sfortunatamente non possiamo pagarti – ha spiegato – ma raggiungiamo 13 milioni di lettori al mese». Il giornalista, motivando il suo rifiuto – «Ho famiglia», «Ho le mie bollette da pagare» – ha deciso di pubblicare l’intero scambio sul suo blog. Provocando un vasto dibattito su siti, blog e Twitter a proposito del ruolo del freelance in un contesto di crisi, dei nuovi metodi di produzione online e delle sfide che gli aspiranti giornalisti dovranno accettare per riuscire ad accedere alla professione.
Internet, non troppo freelance-friendly
Uno dei contributi più citati, e tra i primi ad intervenire sulla vicenda, è quello di Felix Salmon su Reuters, che ha messo in evidenza l’aspetto dell’evoluzione del mestiere giornalistico in rete, teso ormai a un processo di scrittura, lettura, aggregazione e conversazione che non può prevedere soltanto la semplice produzione testuale. E aspettarsi, di conseguenza, livelli di retribuzione chiari e paragonabili a quelli di un tempo. A cambiare radicalmente, insieme al modello di produzione, sarebbero infatti anche le prospettive economiche del freelance, che non può più pretendere, a dati scenari, di riuscire a vivere solo di questo tipo di attività.
Partendo da motivazioni meramente economiche: la quasi totalità dei budget investiti dalle media company – aggiunge – viene utilizzato per i membri fissi delle redazioni, provocando un progressivo assottigliamento della porzione di investimenti dedicata ai collaboratori esterni, fino a far diventare antieconomico questo tipo di approccio al mestiere. Non è detto che dal digitale non si riesca a trarre guadagni, precisa Salmon, ma è evidente che a date condizioni, e senza la certezza di un inserimento a tempo indeterminato, il settore sia diventato pressoché svantaggioso: «Possiamo dire che il web non un posto freelance-friendly».
Il valore del lavoro e la ‘visibilità’
«The economics of writing have changed», sottolinea Mathew Ingram su PaidContent. Di certo Internet, aggiunge Kelly McBride su Poynter, ha alterato definitivamente un chiaro e fin qui stabile schema di retribuzione, basato finora sul semplice conteggio delle parole, che partiva da un minimo di 10 centesimi di dollaro a salire. La rete, la riformulazione del prodotto e la distribuzione del tutto diversa dei contenuti hanno però finito col rimodulare questo calcolo, che non si può più basare solo sulle battute scritte non esistendo più quadri di riferimento precisi né – come visto – l’impressione univoca che in rete si lavori soltanto a livello testuale.
Il che porta a ripensare anche al valore stesso del lavoro, e a come esso debba esser retribuito in uno scenario sempre più aperto alla competizione e meno conveniente per chi vi approda. Su The Awl Choire Sicha ha pubblicato una lunghissima conversazione aperta su Branch, che ha coinvolto numerosi esperti del settore con i più diversi punti di vista proprio a proposito del valore del lavoro del freelance e sul suo corrispondente pagamento.
Scrivere gratis, un’opportunità
Non è più possibile infatti competere e sopravvivere in uno scenario ‘dopato’ dall’inserimento di nuovi attori, sempre meno professionalizzati, che offrono il proprio lavoro con la promessa di maggiore visibilità – sul fortunato modello di portali come Huffington Post. Ma sempre più spesso, nel tentativo di incontrare – abbassando le proprie pretese economiche – questa curva di offerta, sono i giornalisti stessi a offrire un intero catalogo di contenuti gratuiti in cambio di una ‘reputazione’, in «un vortice di speranza e duro lavoro» (Karen Fratti su Mediabistrot) che finisce con l’influire direttamente sul crollo delle retribuzioni garantite – come ricorda Matt Yglesias su Slate. Nel caso in oggetto, appunto, a proporre uno scambio del genere è la stessa Editor di The Atlantic, nel momento in cui cita il monte visite mensili del sito come controparte per l’impegno editoriale richiesto.
Mathew Ingram, commentando la vicenda e il post di Salmon, annota infatti come l’autore diReuters abbia forse sottovalutato un elemento di particolare interesse: The Atlantic, che ha sottoposto il freelance a un’indubbia umiliazione malgrado i «no offense taken», avrebbe potuto tranquillamente prendere parte del pezzo di Thayer, citandolo e linkando l’originale, così come avviene spesso anche su altri siti come Globalpost o, appunto, lo stesso HuffPost. (il cosiddetto crossposting). Ma come quantificare il ritorno in ‘fama’ da un semplice richiamo esterno? E può avere senso snaturare un faticoso lavoro di tipo professionale accettando di veder la propria opera, a pezzi e gratuitamente, su diverse piattaforme?
Il lavoro del giornalista, rammenta Phil Carr su PandoDaily, è una sorta di vocazione che prende molto più di 40 ore settimanali, e richiede fatica, passione, viaggi e tempo per l’editing di articoli che valgano la fatica spesa. «Per quanto sia fantastico scrivere – continua Yglesias su Slate – ci sono ancora buone ragioni per rifiutare di farlo. Per esempio: non ti piace; preferiresti farlo gratis altrove (sul tuo blog piuttosto che su The Atlantic); hai altre offerte a pagamento».
Eppure, secondo molti, le attuali prospettive economiche non consiglierebbero questo tipo di approccio ‘duro e puro’, che rischierebbe di diventare controproducente e di ostacolare il progredire della carriera di un autore. «Ricorda, se ti piace scrivere, e al momento non hai troppe opportunità, allora dovresti considerare la possibilità di scrivere gratis», precisa Yglesias. Il lavoro da collaboratore a titolo gratuito, aggiungono altri autori che hanno preso parte al dibattito in questi giorni, potrebbe essere infatti visto come una necessaria – seppur svantaggiosa – fase da approcciare nella scalata che dovrebbe condurre al ‘posto fisso’, un’opportunità da cogliere, per quanto probante: «Diversamente da quanto pensano alcuni colleghi, sono felice di aver avuto l’opportunità di lavorare come povero blogger freelance» ha spiegato Gregory Ferenstein su TechCrunch. «Se non fossi stato un autore sottopagato, a quest’ora non sarei neppure un giornalista».
Anche Jane Friedman, in «The state of Online Journalism Today», ammette che da autrice avrebbe potuto accettare l’offerta di The Atlantic, sebbene si tratti di scelte che dipendono dalla situazione professionale e dalla sensibilità del singolo: «Guardando alla carriera di Thayer – già apprezzato reporter specializzato nel sud est asiatico, nda – è facile capire le ragioni del suo no». Ma a difendere il lavoro non pagato, dalle stesse pagine del gruppo Atlantic, è Stephanie Lucianovic, che giustifica la scelta della collaborazione a titolo gratuito puntando sull’argomento della libera espressione artistica. «Non sempre considero lo scrivere un lavoro. Certe volte capita e basta»: un atto personale per il quale si pensa – e si spera – di essere pagati. Ma che viene espletato comunque, e per l’autrice – evidentemente – senza troppa fatica.
La posizione di The Atlantic
La replica più forte e precisa arriva però dal Senior Editor della testata Alexis Madrigal, che spiega inun lungo articolo le ragioni che hanno portato a questa controversia. Madrigal precisa che dovendo dare delle priorità di spesa al budget di cui dispongono, molto spesso preferisce assumere a tempo pieno un nuovo membro della redazione che pagare un freelance, una volta valutati i pro e i contro dei contenuti provenienti da autori esterni. Tanto più, continua, se il 90% delle visite verso il sito proviene in media da pezzi scritti dai componenti fissi della ‘squadra’, per i quali sono impiegati il 95% dei capitali ‘editoriali’ investiti. Madrigal, scusandosi ancora col giornalista, concorda sull’imprevedibile evoluzione dello scenario editoriale: il panorama è totalmente cambiato, diverso da come lo si è immaginato per anni, tanto che l’accesso alla professione e una prospettiva economica decente appaiono effettivamente poco sicuri, se si considera che nessuno dei modelli fin qui sperimentati, nel settore dei magazine, sembra davvero funzionare.
La testata nel frattempo ha cercato di spiegare e difendere la propria posizione su più versanti.Interrogato da Salmon, l’Head del settore digital Bob Cohn ha parlato di errore da parte della Editor, e ammesso che forse sarebbe stato meglio procedere a un semplice crossposting, senza necessariamente aprire l’argomento della mancata retribuzione, com’è norma in questo tipo di pratica editoriale, con l’autore. Sul suo blog sul Guardian, Roy Greenslade sottolinea come The Atlantic quasi certamente non generi profitti per il proprietario David Bradley e il suo gruppo. Ironia della sorte – fa notare invece Salmon in un aggiornamento al suo post -: il pezzo di Thayer al centro dell’intero dibattito dovrebbe parecchio, quanto struttura e stesura, a un articolo – mai citato né riportato – del 2006 sullo stesso tema, apparso sul San Diego Union Tribune.
Foto: Peter Macdiarmid/Getty Images