Che cos’è il New Deal
Quella cosa - iniziata 80 anni fa - che secondo molti ci farebbe uscire dalla crisi, e che aiutò gli Stati Uniti a uscire da quella del '29
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
In questi anni di crisi si sente spesso dire dai politici che, per risolverla, sarebbe necessario “un nuovo New Deal” – “nuovo patto”, in inglese – con riferimento alla serie di interventi varati dal governo degli Stati Uniti dopo la crisi economica del ’29. A metà febbraio, ad esempio, il presidente di Confindustria ha chiesto ai rappresentanti dei partiti “un New Deal tra le forze produttive del paese”. Lo stesso concetto è stato più volte evocato dai leader del Partito Democratico e da altre forze politiche. Oggi sono 80 anni esatti da quando il primo della lunga serie di provvedimenti che composero il New Deal venne approvato.
Che cosa fu il New Deal
Quando nel luglio del 1932 Franklin Delano Roosevelt accettò la nomination del partito democratico per correre come candidato presidente, pronunciò uno storico discorso che introdusse per la prima volta l’espressione New Deal nel dibattito politico:
Ovunque nella nazione, uomini e donne, dimenticati dalla filosofia politica del nostro governo, ci guardano in attesa di guida e di opportunità per ricevere una più equa distribuzione della ricchezza nazionale. Io mi impegno a sancire un nuovo patto [new deal] con il popolo americano. Questa è più di una campagna elettorale: è una chiamata alle armi.
La metafora della guerra fu poi una costante di tutto l’impegno riformatore di Roosevelt e dei cosiddetti newdealers – in modo piuttosto ironico, come vedremo più avanti.
Questo “nuovo patto”, in concreto, fu un grande insieme di interventi sulla spesa pubblica, sulla tassazione, sulla regolazione e sulle politiche monetarie. Il principale autore fu proprio Roosevelt, che vinse le elezioni del 1932. Il New Deal durò dal 1933 al 1938 e viene comunemente diviso in due fasi: il primo e il secondo New Deal (quest’ultimo dal 1935 al 1938). L’approccio non fu sistematico: il governo federale cercò di risolvere i problemi mano a mano che si presentavano. Alcune di queste toppe furono peggiori del buco che cercavano di chiudere, altre furono soluzioni temporanee causate dallo stato di emergenza, altre ancora – soprattutto gli interventi regolatori e quelli della protezione sociale – durano ancora oggi.
L’inizio del New Deal
Roosevelt si insediò nel marzo del 1933 con una larga maggioranza nei due rami del parlamento. Nei primi mesi dell’anno il paese aveva appena toccato il fondo della crisi economica: sia in termini di disoccupazione che di PIL – che all’epoca, come misura statistica, ancora non esisteva. Nei primi cento giorni circa del suo mandato, Roosevelt incontrò il Congresso tutti i giorni e fece approvare la prima serie di misure del suo New Deal, la cosiddetta “Sessione dei 100 giorni”.
Il primo atto, approvato il 9 marzo del 1933, fu uno di quelli destinati a durare ancora oggi. Si chiamava Emergency Banking Act (EBA) e stabiliva che nessuna banca avrebbe potuto operare negli Stati Uniti senza l’approvazione e la supervisione della Federal Reserve, la banca centrale. Come l’EBA, molte altre delle riforme più durature del New Deal riguardarono la regolamentazione.
Ad esempio i controlli sulla borsa vennero affidati nel 1934 alla SEC, l’equivalente della nostra CONSOB, che esiste tutt’ora. Lo stesso Banking Act conteneva anche il Glass-Steagall Act, la legge che separava le banche commerciali, che cioè raccoglievano denaro presso i risparmiatori e lo prestavano, e le banche d’investimento, che invece investivano i proprio capitali e offrivano consulenze. Nel 1998, il Glass-Steagall Act fu di fatto abrogato e molti commentatori sostengono apertamente che questa sia stata una delle cause della crisi.
Oltre che a regolare, il New Deal cercò anche di intervenire direttamente nell’economia. Decine di agenzie federali e programmi furono creati in quegli anni, tutti contraddistinti da sigle: CWA, CCC, NRA, AAA e FERA. Era quella che all’epoca gli americani chiamavano “la zuppa alfabetica” e che ai repubblicani ostili a Roosevelt ricordava la volontà di pianificare l’economia del regime fascista di Mussolini e di quello comunista di Stalin. L’ultima sigla, la FERA, fu uno dei programmi più efficaci – ed era anche uno dei più semplici: consisteva in una serie di interventi diretti per fornire a quel 25% di americani disoccupati denaro, cibo e vestiti.
Il secondo New Deal
In generale, i provvedimenti del primo New Deal non produssero i risultati sperati. Nel 1935 la disoccupazione era diminuita di poco – era ancora sopra il 20% – mentre la ripresa economica era ancora debole. Roosevelt, oltre a questi parziali insuccessi, dovette affrontare anche un crescente scetticismo da parte del Congresso e l’ostilità della Corte Suprema, che dichiarò incostituzionali diversi programmi di riforma.
Roosevelt reagì attaccando direttamente la Corte Suprema, proponendo una legge per aumentarne i membri e quindi pareggiare il numero di giudici ostili con giudici nominati da lui: la legge venne respinta, ma la Corte fu intimidita e cessò di bloccare le riforme. Roosevelt passò allora a proporne di ancora più drastiche. Nel 1935 cominciò quindi una seconda serie di interventi, ancora più radicali dei precedenti, che gli storici hanno ribattezzato Secondo New Deal.
Molte delle riforme di questa fase sono durate a lungo: come il sistema fiscale estremamente progressivo – cioè più pesante per i ricchi che per i poveri – che fu sostanzialmente cambiato soltanto da Reagan negli anni ’80. Alcune sono in vigore – almeno nell’impostazione – ancora oggi: come le riforme delle pensioni, dell’assistenza e della protezione sociale e il riconoscimento giuridico dei sindacati.
Scava la buca riempi la buca
La misura rimasta più celebre di tutto il New Deal è certamente la creazione della Works Progress Administration (WPA) e di altri programmi simili: grandi enti statali che assumevano milioni di disoccupati per costruire grandi opere pubbliche come strade, dighe e scuole. Questi programmi devono la loro fama anche a una famosa battuta dell’economista John Maynard Keynes che disse che in tempi di crisi lo Stato avrebbe dovuto assumere alcuni disoccupati per scavare buche e altri disoccupati per riempirle. Keynes è spesso associato al New Deal perché, sintetizzando brutalmente alcune delle sue teorie, sosteneva che la spesa pubblica poteva sostenere in tempo di crisi gli investimenti e i consumi. In realtà, pochi newdealers conoscevano Keynes, anche dopo la pubblicazione nel 1935 del suo libro più famoso.
L’obbiettivo della WPA, e della FERA che aveva sostituito, era garantire uno standard minimo di vita ai disoccupati, che nel periodo oscillarono tra il 25% e il 14% della popolazione. In questo senso furono entrambi programmi efficaci: ricerche recenti hanno stimato che ogni 200 mila dollari dell’epoca (circa 2,5 milioni di oggi) spesi in questi due programmi venivano evitati una morte infantile, un suicidio, 3,5 morti a causa di malattie e 21 crimini contro la proprietà.
Spesso, chi sostiene la necessità di adottare un nuovo New Deal allude in particolare all’opera compiuta dalla WPA che fu effettivamente efficace nel raggiungere il suo obbiettivo. Ma i lavoratori impiegati venivano pagati appena il 40% del salario standard. Attualmente i programmi di protezione sociale e assistenza sanitaria – e soprattutto nei paesi europei – garantiscono già ampiamente quei livelli minimi di sussistenza che erano l’obbiettivo dei newdealers.
I risultati del New Deal
La letteratura sui risultati ottenuti dal New Deal è sterminata e a volte contrastante. Alcune misure che vennero prese all’epoca, come ad esempio il tentativo di mettere d’accordo gli agricoltori per diminuire la produzione e mantenere i prezzi alti, furono nella pratica insuccessi e aumentarono la disoccupazione. Altre riforme portarono effettivamente un aiuto all’enorme popolazione di disoccupati, mentre alcune scelte regolatorie furono così efficienti che, sotto varie forme, durano ancora oggi.
Su una cosa però gli economisti e gli storici sono concordi: il New Deal non fu un intervento di stimoli “keynesiani” all’economia. La maggioranza democratica di Roosevelt era composta in buona parte da deputati del sud, contrari a ogni spesa in deficit. Anche se il bilancio federale aumentò dal 4% all’8% del PIL durante il New Deal, il PIL era diminuito così tanto durante la depressione – del 33% rispetto al 1929 – che l’aumento di spese statali non riuscì mai a colmarlo.
Per tutto il New Deal il debito pubblico restò stabile poco sopra il 40% del PIL, mentre l’aumento di spesa veniva finanziato con un elevatissimo aumento delle tasse. In altre parole durante il New Deal la politica fiscale di Roosevelt fu molto conservatrice e attenta a non creare deficit. Le cose cambiarono con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e con le prime commesse richieste all’industria bellica americana da parte del Regno Unito.
Quando nel 1941 gli Stati Uniti entrarono in guerra, una buona parte dell’economia venne riconvertita per sostenere lo sforzo bellico. Il 15% della popolazione in età da lavoro venne arruolata nell’esercito mentre il governo federale cominciò a spendere in deficit, portando nel 1945 il rapporto debito/PIL al 120% e la disoccupazione al 2%. Ironicamente, nonostante il linguaggio bellicoso del New Deal e dei newdealers, fu una guerra vera a far superare definitivamente gli effetti della crisi economica.