Berlusconi condannato per i nastri Unipol

A un anno di carcere: la sentenza di primo grado assegna anche due anni e tre mesi a Paolo Berlusconi e un risarcimento di 80 mila euro a Fassino

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Di cosa parliamo
Il 31 dicembre del 2005 il Giornale pubblica la trascrizione di una telefonata tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, durante la quale l’allora segretario dei DS chiede all’allora amministratore delegato di Unipol «Ma abbiamo una banca?». La domanda fa riferimento ai tentativi di acquisizione da parte di Unipol della Banca Nazionale del Lavoro. Tale operazione in quelle settimane era oggetto di una complessa e frastagliata inchiesta giudiziaria che i giornali definirono, ahinoi, Bancopoli. Giovanni Consorte si era dimesso dal suo incarico soltanto il 28 dicembre proprio in seguito alle indagini. La pubblicazione della frase di Fassino generò una grandissima quantità di polemiche e accuse che attraversarono in modo trasversale l’arco politico italiano: il centrodestra ne approfittò per denunciare quelle che a suo parere erano operazioni finanziarie condotte da terzi per conto della sinistra italiana, nello stesso centrosinistra moltissimi lamentarono la presunta interferenza di Fassino con gli affari di una banca del mondo cooperativo – «le coop rosse! il PCI! la questione morale!», avete capito.

Il nastro
Com’è noto, il sistema giudiziario italiano non ha una gran tradizione nella riservatezza degli atti giudiziari in generale e delle intercettazioni in particolare. Nel caso dell’intercettazione di Fassino, però, successe qualcosa di strano. L’unica copia del nastro era custodita dalla procura di Milano in un archivio della Provincia, sigillato. Doveva ancora essere depositato agli atti. Di fatto, quel nastro non poteva essere arrivato al Giornale dalla procura. Ci era arrivato, infatti, secondo la procura, direttamente da chi quell’intercettazione l’aveva realizzata.

Favata e Raffaelli
Le procure non effettuano le intercettazioni al loro interno, ma delegano queste operazioni ad alcune società private, che agiscono dietro loro mandato diretto. Nel caso di Consorte, la procura di Milano aveva dato incarico di intercettare la sua utenza telefonica a una società chiamata RCS, che non ha niente a che vedere con la RCS editrice del Corriere della Sera. Il suo amministratore delegato si chiama Roberto Raffaelli. Un suo socio e collaboratore si chiama Fabrizio Favata. È quest’ultimo, poco più di un anno fa, a denunciare alla procura quanto accaduto alla vigilia di Natale del 2005.

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