La bambina “curata” dal virus HIV
È successo negli Stati Uniti, il caso potrebbe portare a nuove terapie per fermare il virus che causa l'AIDS, ma serviranno molte verifiche
Domenica 3 marzo, un gruppo di medici e ricercatori statunitensi ha annunciato di avere “curato” una neonata affetta da HIV, il virus che causa la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). La bambina, originaria del Mississippi, è stata trattata con dosi massicce di antiretrovirali, farmaci che servono per impedire al virus di replicarsi e di fare avanzare la malattia, dopo circa 30 ore dalla sua nascita, procedura che di solito non viene seguita con questi metodi. La relazione, che potrebbe portare a un nuovo approccio nelle terapie per i neonati affetti da HIV, sarà presentata lunedì 4 marzo nel corso della 20esima “Conferenza sui retrovirus e sulle infezioni opportunistiche” iniziata a Atlanta, in Georgia. La comunità scientifica guarda con molto interesse al nuovo studio che, è bene ricordarlo, non è stato ancora verificato da altri ricercatori e necessita di ulteriori conferme.
La relazione sulla neonata del Mississippi è stata scritta, tra gli altri, da Deborah Persaud, professoressa associata presso il Centro pediatrico della Johns Hopkins University di Baltimora, nel Maryland, che al New York Times ha spiegato che quanto avvenuto “è la prova del fatto che si possono curare le infezioni da HIV se una simile cosa può essere replicata”. A oggi chi ha il virus dell’HIV non può essere curato, cioè non può guarire completamente dall’infezione. L’assunzione regolare di farmaci permette comunque di tenere sotto controllo la malattia, evitando nella maggior parte dei casi che causi seri danni al sistema immunitario, accorciando le aspettative di vita.
Il caso cui fa riferimento la relazione di Persaud e colleghi risale all’autunno del 2010. Una donna incinta fu ricoverata in una clinica del Mississippi e a causa di alcune complicazioni partorì anticipatamente, facendo nascere prematuramente una bambina. La madre non aveva visto alcun medico durante la gravidanza e non sapeva nemmeno di avere l’HIV. I test realizzati in ospedale rivelarono che la donna era affetta dal virus e la bambina fu trasferita d’urgenza nel centro medico della University of Mississippi a Oxford, il capoluogo della contea di Lafayette.
Arrivò nella clinica universitaria quando aveva circa 30 ore di vita. La dottoressa Hannah B. Gay dispose due prelievi di sangue, alla distanza di un’ora l’uno dall’altro, per rilevare la presenza di tracce genetiche (DNA e RNA) del virus nell’organismo della neonata. Furono trovate circa 20mila copie del virus per millilitro di sangue, una quantità abbastanza bassa per un bambino. Il test era comunque positivo e suggeriva che l’infezione fosse avvenuta durante il periodo della gravidanza e non all’atto della nascita. Gay avviò immediatamente una terapia basata sulla somministrazione di tre farmaci, e non due come avviene di solito, senza attendere altri test che confermassero in via definitiva l’effettiva presenza di un’infezione da HIV.
Grazie al trattamento poco ortodosso ma eseguito con grande tempismo, le quantità del virus iniziarono a diminuire fino a rendere l’HIV non rilevabile un mese dopo la somministrazione dei primi farmaci. Ancora un anno e mezzo dopo i test non consentirono di rilevare la presenza del virus che causa l’AIDS. Nei mesi seguenti, la madre smise di dare i farmaci alla propria bambina e non si presentò più in ospedale per i controlli per qualche mese. Tornò cinque mesi dopo e i ricercatori condussero nuovi test immaginando di trovare un alto livello virale nel sangue, ma con loro sorpresa gli esami si rivelarono tutti negativi. Ne furono eseguiti altri, per precauzione e ulteriore verifica, ottenendo gli stessi risultati.
Gay decise di contattare una propria conoscente che stava lavorando insieme con Persaud allo studio di possibili terapie più efficaci contro l’HIV per i neonati. Le ricercatrici si misero subito al lavoro e realizzarono una nuova serie di test sulla neonata. Questi esami, molto più approfonditi e accurati, servirono per identificare alcune tracce genetiche del virus, ma incomplete e quindi insufficienti per l’HIV per tornare a replicarsi.
Il gruppo di ricerca ipotizza che i farmaci dati nelle prime ore di vita del neonato abbiano fermato il virus prima della formazione di una riserva nascosta nella bambina. Semplificando, l’HIV si mantiene spesso in uno stato dormiente in aree nascoste degli organismi che ha infettato, zone irraggiungibili dai farmaci. Se trova la strada libera, in assenza di farmaci, emerge e inizia a replicarsi causando seri danni all’organismo. Da tempo diversi ricercatori teorizzano che con un trattamento farmacologico adeguato, nei primissimi tempi dopo il contagio, è possibile impedire al virus di creare le sue riserve nascoste e di conseguenza fermare la malattia.
Il problema è che negli adulti la presenza dell’HIV viene di solito rilevata in seguito alla comparsa dei primi sintomi, e quindi quando è ormai troppo tardi. Nei neonati, suggeriscono gli autori della relazione sul caso del Mississippi, le cose possono essere più semplici perché se il virus viene rilevato nelle prime ore di vita è possibile avviare da subito una terapia d’urto che lo porti praticamente a scomparire.
Il caso della neonata del Mississippi dovrà essere approfondito e saranno necessarie altre ricerche, prima di affermare con certezza che una bambina nei suoi primi giorni di vita sia stata curata. Nei paesi economicamente più avanzati i casi di infezioni da HIV trasmesse da madre a figlio durante la gravidanza sono molto rari. Quando viene diagnosticata la presenza del virus, alla madre vengono somministrati farmaci per evitare che questo passi al bambino. Dopo la nascita ai neonati viene praticata una profilassi, che dura di solito un mese e mezzo, mentre si eseguono altri accertamenti per verificare l’eventuale contagio. Le cose sono molto più complicate se la madre positiva all’HIV non ha ricevuto questo tipo di cure durante la gravidanza.
In moltissimi paesi in via di sviluppo o ancora economicamente arretrati, soprattutto in Africa, è raro che le donne siano trattate per l’HIV durante la gravidanza. I test per verificare la presenza del virus nei neonati non sono sempre eseguiti, o sono realizzati con sistemi superati che richiedono molto tempo prima di dare un esito, e il fattore tempo è essenziale per tenere da subito sotto controllo la malattia. Se l’efficacia del sistema utilizzato nel caso del Mississippi sarà confermata, grazie a test più rapidi sulla presenza del virus nei neonati potrebbe essere possibile avviare terapie per neutralizzare l’HIV e risparmiare ai nuovi nati una vita di farmaci antiretrovirali. Molti ricercatori sono ancora cauti e scettici, in attesa di nuovi studi e ricerche su scale più grandi per verificare se la vicenda della neonata del Mississippi possa essere replicata o meno.
foto: Una bambina nata da una madre positiva all’HIV riceve un farmaco antivirale
in una clinica nei pressi di Città del Capo, Sudafrica (ANNA ZIEMINSKI/AFP/Getty Images)