Trent’anni di Swatch
Il primo marzo 1983 fu lanciato a Zurigo il prodotto che salvò l'industria svizzera degli orologi, e che abbiamo avuto praticamente tutti
Il primo marzo 1983, trent’anni fa, venne lanciato ufficialmente a Zurigo quella che allora era l’ultima novità dell’industria degli orologi svizzera: lo Swatch. Era l’ultimo prodotto perché il più recente, ma rischiava sul serio di essere uno degli ultimi in assoluto, perché il settore stava lentamente fallendo. La storia degli Swatch è quella di un grande ritorno sulla scena ma anche un caso esemplare di come si crea, oggi, un prodotto di successo. È una storia che ha un protagonista, «l’uomo che ha salvato l’industria degli orologi svizzera», e in cui compaiono un minerale, il Giappone e il cantante Moby.
Gli svizzeri sono sempre stati all’avanguardia nella produzione degli orologi: anche quelli da polso erano un’invenzione loro (della Patek Philippe) e risalivano alla seconda metà dell’Ottocento. Chi li aveva resi un accessorio relativamente popolare, però, era stato il francese Louis Cartier qualche decennio dopo, negli anni della Prima guerra mondiale. Prima di allora, l’orologio maschile era solo quello da taschino.
Ad ogni modo, la Svizzera si mantenne fedele alla sua tradizione e dopo la Seconda guerra mondiale era la produttrice e l’esportatrice di circa metà degli orologi che si vendevano e acquistavano nel mondo. Il suo dominio quasi assoluto venne scosso solo negli anni Cinquanta dal lancio degli orologi TIMEX americani, che usavano metalli duri per i meccanismi invece di pietre preziose: si trattò di un duro colpo, ma era una concorrenza che si poteva ancora gestire.
Quarzo e Giappone
Poi arrivarono gli anni Sessanta e l’innovazione che rischiò di interrompere la lunga e gloriosa tradizione svizzera: l’orologio analogico al quarzo. In questo oggetto, la misura del tempo è data dalle vibrazioni – simili a quelle di un diapason – di un piccolo cristallo di quarzo, che garantisce una precisione superiore a quella di qualsiasi orologio meccanico. Gli svizzeri lavoravano da tempo a questa tecnologia ma vennero battuti sul tempo dalla giapponese Seiko, che intorno al 1970 era pronta a lanciare sul mercato di massa i nuovi orologi digitali. La seguirono altri giganti come Citizen e Casio.
In Svizzera, al di là di quello che succedeva in qualche laboratorio, gli orologi continuavano ad essere fatti alla vecchia maniera: oggetti meccanici dalla produzione lenta e dall’aspetto lussuoso. Ma in tutto il mondo – e nella stessa Svizzera – la gente cominciò a comprare orologi giapponesi al quarzo, che forse non avevano la stessa eleganza ma non costavano neppure qualche settimana di stipendio. L’industria svizzera degli orologi, che aveva fatto il grave errore di considerare gli orologi al quarzo una moda passeggera, perse in pochi anni due terzi dei suoi addetti e altrettanta quota di mercato.
Tra le aziende più in crisi ce ne erano due molto grandi, fondate agli inizi degli anni Trenta e dai nomi poco emozionanti: la SSIH – nata dalla fusione di due marchi storici, Omega e Tissot – e la ASUAG, una holding che univa decine di marchi. Entrambe producevano orologi meccanici di alta qualità ed entrambe, ai primi degli anni Ottanta, erano sull’orlo del fallimento e stavano per vendere i loro marchi più celebri (come Longines, Tissot e Omega) all’odiata concorrenza giapponese.
L’eroe di questa storia
Le banche creditrici affidarono allora a un abile e ricco consulente aziendale di Zurigo, Nicolas G. Hayek, uno studio per capire che cosa si potesse salvare nel disastro generale. Oppure, per come vendere ai giapponesi al prezzo migliore e di fatto concludere la pluricentenaria tradizione di orologi del paese, mantenendo solo la fabbricazione dei più ricercati oggetti di lusso.
Hayek era un cinquantenne nato in una ricca famiglia del nord del Libano e trasferitosi in Svizzera negli anni Cinquanta, dopo il suo matrimonio con la figlia di un industriale del paese alpino. Si convinse che le due case di produzione si potevano salvare e presentò un piano che aveva due punti principali. Il primo era la fusione di ASUAG e SSIH in una sola società; il secondo, il lancio su larga scala di un nuovo genere di prodotti a cui stavano lavorando da alcuni anni un gruppo di ingegneri della ditta ETA, che faceva parte di ASUAG: un orologio sottile e altamente tecnologico, il progenitore dello Swatch. La fusione si realizzò nel 1983 e nacque la SMH (Societé Suisse de Microelectronique et d’Horlogerie; il nome non era ancora molto accattivante, diciamo) mentre cominciarono i grandi cambiamenti che avrebbero portato alla produzione dello Swatch: in tutti i settori, dalla produzione alla distribuzione alla pubblicità.
Per produrre gli Swatch vennero semplificati e automatizzati gran parte dei processi industriali, in modo da rendere gli orologi più economici e producibili in massa: la più importante e celebre di queste trasformazioni – una delle intuizioni degli ingegneri dell’ETA – fu la drastica riduzione del numero di componenti dell’orologio, portandolo da più di cento a una cinquantina circa. E stiamo parlando di orologi al quarzo: Hayek decise di sfidare i giapponesi sul loro stesso terreno.
Hayek capì che per battere la concorrenza doveva fornire un prodotto leggermente diverso, e per farlo decise di investire sia sulla tecnologia che sul design. Gli orologi giapponesi, in effetti, funzionavano benissimo ed erano molto economici, ma erano decisamente bruttini, con i loro schermi grigi in un rettangolo di plastica nera. Le prime collezioni degli Swatch, dopo qualche aggiustamento iniziale, si presentavano con colori vivaci e con qualche altra pensata notevole – come il quadrante trasparente che lasciava vedere sotto di sé il meccanismo – che poi diventò persino bizzarra, come gli orologi profumati.
L’altro elemento era la varietà resa possibile dall’utilizzo della plastica per la cassa e il cinturino. Vennero lanciati in pochi anni decine e decine di modelli diversi, mantenendo invariate le caratteristiche produttive fondamentali (e quindi il prezzo) ma cambiando il design e i colori. In pratica, un invito al collezionismo.
Un successo straordinario
Sostenuti da una grande campagna pubblicitaria – circa un terzo del prezzo finale degli orologi va in pubblicità – gli Swatch diventarono di moda. Più ancora che di moda: diventarono uno dei simboli degli anni Ottanta. Gli Swatch cambiarono anche il modo di fare pubblicità degli orologi, vendendoli come un prodotto giovane e accessibile in campagne pubblicitarie molto creative e aggressive.
Breve inciso. Spesso si pensa che il nome abbia a che fare con la Svizzera, anche perché il marchio ufficiale è formato appunto dal nome e dalla croce bianca su sfondo rosso. In realtà, “Swatch” è un’abbreviazione di “second watch”, per promuovere l’idea che i consumatori ne avrebbero comprato più di uno.
L’idea su cui si investì, centrale per il suo successo, era che l’orologio non fosse più un oggetto che serviva solo per misurare il tempo, ma anche un modo per esprimere la propria personalità, con i suoi disegni sgargianti e i suoi colori. Cambiò anche il modo di venderli: da un lato, la Swatch aprì grandi negozi monomarca in posti molto celebri, come Times Square a New York o gli Champs Élysées a Parigi; dall’altro investì su punti vendita molto più piccoli ma molto riconoscibili in luoghi non convenzionali, come le stazioni o gli aeroporti. In pochissimi anni, gli Swatch ottennero un enorme successo commerciale, come mostrano i numeri di esemplari venduti: nel primo anno, il 1983, 1,1 milioni di orologi; nel 1986, oltre 12 milioni. Il 50milionesimo esemplare venne prodotto nel 1988.
Molti modelli venivano disegnati dagli Swatch Design Lab di Milano, guidati da Franco Bosisio. Il marchio venne associato all’arte e alla cultura pop: vennero lanciati Swatch disegnati da Moby, Akira Kurosawa, Spike Lee e Renzo Piano, per fare qualche esempio, oltre a diversi modelli disegnati da Keith Haring (la Swatch è anche sponsor dell’edizione 2013 della Biennale di Venezia). Spesso questi modelli venivano venduti in poche centinaia di esemplari che poi crescevano molto rapidamente di valore nel mercato dei collezionisti.
Guardate cosa avete al polso
La SMH cambiò nome nel 1998, per diventare The Swatch Group. Oggi è il più grande produttore di orologi del mondo (la Swatch ha festeggiato la produzione dell’esemplare numero 333 milioni nel 2006) e mantiene la proprietà di una vasta serie di marchi, non solo destinati al mercato di massa. Impiega 25 mila persone ed è un impero così ramificato in tutti i settori dell’orologeria che ha qualcosa a che fare con praticamente tutti gli orologi con il marchio “Made in Switzerland”.
L’impero della Swatch, in accordo con le idee di Hayek, è un impero svizzero. Hayek amava la Svizzera con l’entusiasmo che a volte si trova nei cittadini acquisiti: si opponeva con tutte le sue forze al pensiero di vendere tutto e trasformarla in un paese in cui avevano sede solo le banche (che personalmente Hayek odiava, dicendo che aveva preso un prestito l’ultima volta nel 1957). E quindi, contrariamente a una delle regole base delle multinazionali di oggi – produrre ovunque costi meno – il nucleo centrale del gruppo Swatch in tutti i settori, dalla ricerca e sviluppo alla produzione, è sempre rimasto nella zona montuosa svizzera vicino al confine con la Francia, la sede della tradizione orologiaia svizzera.
Nicolas G. Hayek è morto nel 2010, a 82 anni, per un infarto che lo ha colpito nel quartier generale della Swatch a Biel. La sua riorganizzazione aveva avuto così successo che Hayek rimase alla guida del gruppo dal 1983 fino alla sua morte: nel 1985 comprò una quota di controllo delle azioni della società. Quando morì era per tutti «l’uomo che ha salvato l’industria degli orologi svizzera».