Un anno e mezzo senza un governo
In Belgio ne hanno fatto a meno per 540 giorni e le cose non sono andate così male, ma è difficile che una cosa del genere possa accadere in Italia
Dai risultati delle elezioni politiche italiane del 24 e 25 febbraio è venuta fuori una situazione di stallo e ingovernabilità, che unita al “semestre bianco” del presidente della Repubblica ha creato uno scenario incerto che contempla diverse ipotesi, per il futuro: una di queste prevede che l’Italia resti per un po’ di tempo – da qualche settimana a un paio di mesi – senza un governo legittimato dal voto parlamentare. Una situazione che ricorda alla lontana la recente difficile e travagliata storia post-elettorale del Belgio, iniziata nel giugno 2010. Il Belgio rimase senza governo per 540 giorni, superando ampiamente il record precedente di questo tipo che apparteneva all’Iraq e che era di 249 giorni (peraltro la situazione irachena era in parte giustificata dall’invasione americana, che aveva portato alla caduta di Saddam Hussein).
Cosa successe in Belgio
Il Belgio andò a votare alle elezioni politiche il 13 giugno 2010: il partito separatista fiammingo della N-VA, guidato da Bart De Wever, ottenne un grandissimo successo, ben superiore alle aspettative, superando i socialisti guidati da Elio Di Rupo. La situazione politica del Belgio era complicata anche dalle tensioni che da sempre dividono il paese tra la regione delle Fiandre, più ricca e popolosa, e la Vallonia, francofona e meno ricca. Per questa ragione le richieste della componente fiamminga di maggiore autonomia sono alla base di qualsiasi discussione politica belga (senza contare poi la situazione della capitale Bruxelles, città regione formalmente autonoma e bilingue, ma di fatto a maggioranza francofona, circondata da territori fiamminghi). Proprio lungo questa divisione economica e linguistica, nelle elezioni del giugno 2010 si distribuirono i voti ai due partiti: N-VA trionfò al nord, mentre i socialisti ottennero una larga maggioranza in Vallonia e a Bruxelles.
Seguirono una serie di tentativi da parte di Di Rupo per trovare un accordo e creare una maggioranza in grado di governare il paese. Il re Alberto II affidò anche diversi incarichi esplorativi a importanti politici belgi in veste di “conciliatori”, ma il disaccordo principale, cioè quello sulla maggiore autonomia dei fiamminghi, fece fallire tutti i tentativi. La crisi finì ufficialmente solo il 5 dicembre, quando il re Alberto II nominò primo ministro del nuovo esecutivo Elio Di Rupo, sulla base di un accordo con alcuni partiti minori che permise di lasciare all’opposizione i separatisti.
Il governo in Belgio c’era
In realtà, dal 13 giungo 2010, giorno in cui si andò a votare in Belgio, un governo il Belgio lo ha avuto, anche se non titolare dei poteri che gli sono tradizionalmente conferiti: era guidato da Yves Leterme, primo ministro dimissionario cristiano-democratico che aveva vinto le precedenti elezioni. Leterme avrebbe dovuto curare gli “affari correnti” per qualche settimana prima che si insediasse il nuovo esecutivo, ma finì per mantenere quell’incarico fino al 6 dicembre 2011, quando il leader socialista Elio Di Rupo giurò di fronte al Re.
Il governo di Leterme era incaricato di adottare tutte quelle decisioni imprescindibili per la sopravvivenza di uno Stato, tra cui l’approvazione di una legge finanziaria, l’indirizzo della politica estera e l’adozione di misure di sicurezza sociale. Fu lui a presiedere l’Unione europea nel secondo semestre del 2010, e fu sempre lui che, con l’appoggio unanime del parlamento, decise di spedire uno squadrone di F-16 in Libia in occasione dell’attacco per destituire Gheddafi.
Questo funzionamento fu avvantaggiato dalla struttura stessa dello stato belga, che delega molte importanti competenze ai governi regionali e locali. Anche la gestione della politica estera venne facilitata dalla salda posizione del paese all’interno dell’Unione Europea e della NATO: il parlamento diviso non creò eccessivi problemi all’approvazione di questo tipo di misure.
In assenza di un accordo di coalizione, i ministri che formavano il governo precedente alle elezioni di giugno 2010 rimasero ai loro posti, anche se non c’era né maggioranza in parlamento né accordo preliminare su un ampio programma. I parlamentari belgi si trovarono nella condizione di votare questione per questione senza dover rispondere a impegni di coalizione. Le spese dell’apparato di governo rimasero al minimo, non vennero creati nuovi enti para-statali e non vennero imposte nuove tasse. Tuttavia le grandi riforme di cui aveva bisogno il Belgio, quelle che normalmente sono più connotate politicamente (come la riforma del mercato del lavoro), non vennero adottate, in attesa dell’insediamento di un governo democraticamente eletto.
Uno schema replicabile in Italia?
La prima differenza con il caso belga è che in Italia la legittimità del governo in carico degli affari correnti, quello di Mario Monti, è stata criticata duramente da alcune forze politiche che entreranno nel nuovo Parlamento, prima fra tutte il Movimento 5 Stelle. Inoltre la situazione economica dell’Italia, che non è particolarmente salda, sconsiglierebbe di passare lunghi periodi senza un governo. Senza contare che in Italia la produzione legislativa del Parlamento prevede la presenza del governo in una serie di passaggi (calendario con i capigruppo, lavori delle commissioni, discussione in aula) con un ruolo attivo che non è negli “affari correnti” di un governo dimissionario.
Ci sono poi altre differenze rispetto all’Italia, anche a causa delle divergenze su alcuni temi internazionali tra le maggiori forze politiche del paese. Sul tema della permanenza dell’Italia nell’eurozona, per esempio, il programma del Movimento 5 Stelle chiede che si convochi un referendum popolare. Un altro problema è la confusione che c’è ancora in Italia sull’attribuzione di alcune competenze tra Stato e Regioni, al contrario di quanto è più consolidato in Belgio. In Italia, specie dopo la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, la Corte Costituzionale è dovuta intervenire più di una volta in questi anni per chiarire quali competenze dovevano essere attribuite e a chi. Il governo Monti ha approvato il 9 ottobre 2012 un disegno di legge costituzionale di riforma del titolo V, che di fatto avrebbe dovuto attribuire nuovamente allo Stato la facoltà di decidere su alcuni settori chiave, come l’istruzione, il commercio con l’estero e l’energia. L’iter di approvazione del ddl si è bloccato e i problemi sono rimasti.
foto: Mark Renders/Getty Images