No Country, al Guggenheim
Le foto della mostra che apre oggi a New York, solo con opere di artisti del sud e sud-est asiatico (ed è una scelta che ha molti significati)
di Mercedes Auteri
Oggi, venerdì 22 febbraio, al Guggenheim Museum di New York verrà inaugurata la prima mostra del “Guggenheim UBS MAP Initiative Global Art“, un progetto che individua tre grandi regioni geografiche – Sud e Sud-Est asiatico, America Latina, Medio Oriente e Nord Africa – e prevede per ognuna di queste regioni, oltre che una grande mostra, programmi educativi per il pubblico, residenze per curatori, mostre itineranti internazionali e, soprattutto, grandi acquisizioni per la collezione permanente del museo. Le tre mostre sono sostenute finanziariamente dai servizi bancari e finanziari del gruppo UBS e costeranno circa 40 milioni di dollari.
La prima delle tre mostre, che resterà aperta fino a maggio 2013, si intitola “No Country” ed espone opere di 22 artisti e collettivi considerati tra i più interessanti e innovativi del Sud e Sud-Est asiatico. La mostra presenta pittura, scultura, fotografia, video, opere su carta e installazioni, la maggior parte delle quali saranno in mostra negli Stati Uniti per la prima volta: parlano di etno-nazionalismo, colonizzazione, globalizzazione, identità nazionale. Tutti i lavori sono stati di recente acquisiti dalla collezione Guggenheim. Tra gli autori ci sono il filippino Poklong Anading, il pakistano Bani Abidi, l’indonesiano Arin Dwihartanto Sunaryo, la thailandese Araya Rasdjarmrearnsook, il vietnamnita Tran Luong. Alcune delle loro opere e di altri autori di “No Country” sono nelle foto che seguono, la lista completa è sul sito del Guggenheim.
Richard Armstrong, direttore del Guggenheim, ha detto che «con No country abbiamo cercato di non dare nulla per scontato, nemmeno il concetto di paese, e di ampliare i nostri orizzonti: nel modo di pensare l’arte, cosmopolita; nella comprensione reciproca di altri luoghi che supera le frontiere; nella costruzione di un’area vitale dell’accrescimento della collezione».
Il programma riflette la storia della Fondazione Solomon R. Guggenheim e il suo internazionalismo. Fondata nel 1937, la Solomon R. Guggenheim si dedica a promuovere l’arte – soprattutto moderna e contemporanea – attraverso mostre, programmi di formazione, iniziative di ricerca e pubblicazioni. La rete “globale” ha avuto inizio nel 1970, quando al Solomon R. Guggenheim Museum di New York si è aggiunta la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e, a seguire, il Guggenheim di Bilbao (aperto nel 1997), il Deutsche Guggenheim di Berlino (1997-2013). Oggi è in fase di sviluppo il Guggenheim di Abu Dhabi (apertura prevista per il 2017), e non si tratta di una scelta casuale.
«Il dominio occidentale dell’arte ha i giorni contati», ha dichiarato poco tempo fa il presidente di Christie in Asia, il francese François Curiel. La forza della Cina e delle economie emergenti si fa sentire in tutti i settori dell’economia e il mercato dell’arte e i grandi musei non fanno eccezione, anzi: riflettono bene i nuovi equilibri. «Gli artisti contemporanei cinesi», proseguiva Curiel, «sono passati alla ribalta da un giorno all’altro, mentre i collezionisti asiatici portano il loro libretto degli assegni a spasso per il mondo e sono diventati un gruppo appassionato di importanti e influenti acquirenti». Christie ha aperto delle sedi a Hong Kong e Pechino, in Messico e in Brasile, Sotheby’s ha fatto lo stesso. Tre dei dieci artisti più quotati sono cinesi: le opere di Zhang Daqian e Qi Baishi lo scorso anno hanno raggiunto un valore complessivo di oltre 500 milioni di dollari, molto più del terzo più quotato dietro di loro, Andy Warhol.
Sono esempi e storie che raccontano come nel sistema dell’arte la vecchia centralità dell’Occidente si stia appannando. Posti che una volta erano considerati periferie dell’arte, come Pechino e Shanghai, stanno diventando centri di grande rilevanza, e il loro potenziale è amplificato anche da ragioni fiscali: operazioni che in Occidente sono costose e complicate dall’altro lato del mondo sono di gran lunga più agevoli. Se una volta mecenati e musei americani pensavano le loro collezioni in chiave anti-totalitaria, contro i regimi dell’Unione Sovietica, della Cina o dell’Europa dell’est, oggi la globalizzazione richiede loro quasi un riconoscimento, l’affiancamento dei grandi poteri. Musei, artisti, critici e curatori, si ritrovano – per la loro sopravvivenza – a partecipare a questo negoziato tra cultura, economia e politica, cercando da una parte di preservare la propria identità – culturale e geografica – e dall’altra di immaginare un mondo dell’arte “senza paese”: No Country, come la mostra del Guggenheim.