Tutto sui droni
È "legale" uccidere con gli aerei pilotati a distanza? Quanti ne hanno gli Stati Uniti? Perché se ne usano sempre di più? Quante persone hanno ucciso negli ultimi anni?
di Alessio Marchionna – @alessiomarchio
Il 28 gennaio il New York Times ha scritto che il Dipartimento della difesa degli Stati Uniti sta pensando di creare una base per i droni in Africa Occidentale, molto probabilmente in Niger, al confine con il Mali. Dalla base dovrebbero partire gli aerei senza pilota incaricati di individuare, ed eventualmente uccidere, i membri di al Qaida nella regione. Una base in Niger potrebbe anche fornire supporto logistico per le truppe francesi che stanno combattendo contro gli estremisti islamici nel nord del Mali. Ma soprattutto, questa scelta sarebbe l’ulteriore conferma del fatto che la guerra al terrorismo condotta dagli Stati Uniti si sta spostando sempre più a ovest, e che i droni – gli aerei a pilotaggio remoto, in inglese UAV, Unmanned Aerial Vehicle – hanno un ruolo sempre più centrale nella strategia della Casa Bianca.
Quanti droni hanno gli Stati Uniti?
Circa ottomila. Sono in dotazione al Pentagono, all’esercito, alla CIA e al Comando congiunto delle operazioni speciali. Nella maggior parte dei casi si tratta di droni non armati. Sono aerei usati per le missioni di sorveglianza e ricognizione: si va dal piccolo e poco costoso Shadow – circa tre metri e mezzo di lunghezza per quattro di apertura alare, che viene lanciato con una catapulta pneumatica e costa 750 mila dollari a pezzo – al Global Hawk, che è il più grande (35 metri di apertura alare) e costoso (104 milioni di dollari a pezzo) tra i droni in circolazione. È il modello che gli Stati Uniti hanno messo a disposizione della Francia per monitorare il nord del Mali nel conflitto in corso.
Tra i droni armati, i più comuni sono il Predator, che è grande più o meno come un Cessna ed è quello con cui vengono effettuati la maggior parte degli attacchi americani in Pakistan, e il Reaper, una versione più grande e meglio armata del Predator. Tutti questi droni decollano dalle basi americane che si trovano vicino al luogo in cui avvengono le operazioni, ma sono controllati da postazioni negli Stati Uniti – di solito nelle basi dell’esercito in Nevada, in Virginia e in New Mexico – che sono collegate all’Europa attraverso cavi in fibra ottica. Lì una comunicazione satellitare trasmette le informazioni dai piloti ai droni. Tra il 2005 e il 2012 il governo degli Stati Uniti ha stanziato circa dodici miliardi di dollari per l’acquisto e la manutenzione dei droni, e ha intenzione di spendere altri 36,9 miliardi di dollari nei prossimi otto anni per allargare del 35 per cento la flotta di UAV.
Perché così tanti droni?
I motivi per cui gli Stati Uniti – e come vedremo tra poco non solo loro – stanno puntando molto sulle armi robotiche sono essenzialmente tre. Prima di tutto i droni sono molto più efficaci delle armi tradizionali, almeno per le esigenze degli Stati Uniti nella guerra contro al Qaida. Dopo essere diventato presidente, Barack Obama ha deciso che l’approccio militare dell’amministrazione Bush, basato sull’uso di armi tradizionali e su operazioni convenzionali su vasta scala – come l’invasione dell’Iraq del 2003 – aveva fallito e non era più sostenibile. Così ha deciso di puntare su singole operazioni mirate in vari paesi dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente contro al Qaida e altri gruppi di estremisti islamici. Nel giro di poco queste operazioni, chiamate targeted killings (omicidi mirati) sono diventate una tattica fondamentale nella strategia degli Stati Uniti. I droni, dotati di sistemi di ricognizione e monitoraggio molto precisi, si sono rivelati l’arma ideale per metterla in pratica.
Il secondo motivo è che i droni sono un’arma molto sicura. I piloti statunitensi che guidano questi mezzi da migliaia di chilometri di distanza non corrono nessun rischio. Il terzo motivo è che i droni costano molto meno delle armi tradizionali. Per farsi un’idea basta confrontare il prezzo di un Predator, un drone, con quello di un F-35, il caccia multiruolo che la Lockheed Martin sta costruendo per l’esercito degli Stati Uniti: il primo costa 4 milioni di dollari, il secondo 137 milioni. E questo non è un aspetto da sottovalutare, soprattutto in un periodo di crisi economica.
Questi tre elementi spiegano perché negli Stati Uniti il consenso sui droni sia politicamente trasversale. A ottobre del 2012, durante la campagna elettorale per le presidenziali, il candidato repubblicano Mitt Romney disse di “sostenere in pieno l’uso di queste tecnologie da parte del presidente”. Anche l’opinione pubblica statunitense è favorevole all’uso dei droni. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 62 per cento degli americani approva gli attacchi degli UAV.
Chi usa i droni in questo momento?
Non solo gli Stati Uniti. Secondo i dati della New America Foundation, oggi più di settanta paesi possiedono un drone di qualche tipo, anche se sono pochi i paesi che contano su quelli armati. A settembre del 2012 il governo cinese ha annunciato di voler usare aerei a pilotaggio remoto per sorvegliare le isole del mar Cinese Orientale, controllate dal Giappone ma rivendicate da Cina e Taiwan. A ottobre del 2012 l’Iran ha reso note le caratteristiche di un nuovo drone in grado di volare fino a duemila chilometri di distanza dalla base, cioè con la possibilità teorica di entrare in territorio israeliano. Nel 2010 l’azienda statunitense General Atomics ha ricevuto il permesso dal governo americano di esportare Predator non armati in Arabia Saudita, Egitto, Marocco ed Emirati Arabi Uniti. A maggio del 2012 il Wall Street Journal ha rivelato che gli Stati Uniti hanno accettato di armare i droni Predator e Reaper dell’aeronautica militare italiana con missili Hellfire e bombe a guida satellitare Jdam. Peraltro l’Italia è stato il primo paese a comprare dei Predator americani, nel 2001, e già nel 2006 ha comprato dei Reaper per un costo complessivo di 378 milioni di dollari.
Ma non sono solo i governi a progettare e a usare i droni. Durante la guerra del Libano del 2006, i militanti del movimento islamista Hezbollah hanno inviato degli UAV in territorio israeliano per svolgere missioni di ricognizione. Durante la guerra civile libica che nel 2011 ha portato alla caduta di Muammar Gheddafi, i ribelli hanno comprato su Internet un piccolo drone di sorveglianza prodotto dall’azienda canadese Aeryon. E sembra che le Nazioni Unite vogliano usare UAV da ricognizione per capire quello che sta succedendo nella zona orientale della Repubblica Democratica del Congo.
Dove vengono usati i droni armati?
Soprattutto in Pakistan, Yemen e Somalia, e soprattutto dagli Stati Uniti. In Pakistan gli attacchi dei droni americani sono rivolti contro al Qaida e contro i talebani che si sono stabiliti nella zona nordoccidentale del paese (in viola nell’immagine in basso) dopo l’11 settembre del 2001 e l’invasione dell’Afghanistan. In particolare nel nord e nel sud Waziristan. Secondo il Bureau of Investigative Journalism, un’organizzazione non-profit britannica che si occupa di giornalismo d’inchiesta, tra il 2004 e il gennaio del 2013 ci sono stati 362 attacchi in quelle zone. Di questi la maggior parte (310) sono stati ordinati da Barack Obama.
In Yemen i droni colpiscono i presunti militanti del gruppo terroristico “al Qaida nella penisola araba” (AQAP), nato nel 2009 dalla fusione tra il ramo yemenita e quello saudita dell’organizzazione. AQAP è responsabile di alcuni tra i maggiori attentati realizzati nel paese negli ultimi anni, come l’attacco suicida cha a maggio del 2002 ha ucciso almeno 120 persone nella capitale Sana’a. Negli ultimi anni ha guadagnato terreno e consensi soprattutto nel sud del paese, sfruttando l’instabilità della situazione politica interna.
Nella prossima pagina: quante sono le persone uccise dai droni? Gli attacchi dei droni sono legali? E qualche dritta per tenere d’occhio le notizie e la discussione internazionale sull’uso dei droni.
I droni diretti in Yemen partono dalla base di Camp Lemonnier di Gibuti, nel Corno d’Africa. Fino a dieci anni fa Camp Lemonnier era la più grande base per i droni che gli Stati Uniti hanno nella regione. Nei prossimi anni diventerà sempre più importante per la strategia americana: ad agosto del 2012 il Dipartimento della Difesa ha presentato al Congresso un piano dettagliato che descrive come intende usare il campo nei prossimi 25 anni. In programma ci sono costruzioni per 1,4 miliardi di dollari, tra cui quella di una nuova enorme struttura che potrebbe ospitare fino a 1.100 agenti delle forze speciali. L’importanza di questa base dipende dalla sua collocazione geografica: non solo per la vicinanza con lo Yemen, ma anche perché Gibuti confina con la Somalia, altro obiettivo dei droni americani. In quel paese gli attacchi avvengono soprattutto nel sud del paese, dove opera il gruppo di estremisti islamici al Shabaab. Al Shabaab è nata nel 2006 e nel febbraio del 2012 ha annunciato la fusione con al Qaida.
Quante sono le persone uccise dai droni?
È impossibile dirlo con esattezza. Questo perché le operazioni in Pakistan, Yemen e Somalia sono segrete, così come i nomi dei militanti che gli Stati Uniti inseriscono nelle kill list, le liste degli obiettivi da eliminare in quei paesi. Barack Obama ha ammesso che gli Stati Uniti stanno realizzando attacchi mirati in territorio pakistano solo nel gennaio del 2012. A tenere il conto delle persone uccise sono soprattutto siti d’informazione statunitensi e organizzazioni non governative, in base alle informazioni raccolte da fonti anonime e dai mezzi d’informazione locali, la cui affidabilità varia a seconda dei casi. Secondo le stime più basse del Bureau of Investigative Journalism, le persone uccise in totale tra il 2002 e il gennaio del 2013 sono 3.061 (di cui 2.629 in Pakistan). Tra queste 558 erano civili.
Gli attacchi dei droni sono legali?
Il 24 gennaio le Nazioni Unite hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta sui targeted killings e l’uso dei droni, dicendo che questa riguarderà principalmente – ma non esclusivamente – gli attacchi degli Stati Uniti in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia. L’indagine, condotta da Ben Emmerson, inviato per i diritti umani e il controterrorismo, cercherà di capire se gli attacchi dei droni in quei paesi rispettano le leggi sulla guerra. Quando si parla di UAV la questione della legalità è in assoluto la più complicata. Le norme di riferimento sono il diritto bellico e il diritto umanitario internazionale, alla cui base ci sono le convenzioni di Ginevra, e che non riguarda i combattenti ma le cosiddette vittime dei conflitti armati. Tra i principi fondamentali del diritto umanitario internazionale c’è il principio della distinzione, secondo cui le forze che si scontrano devono sempre distinguere tra obiettivi civili e militari.
Per giustificare l’uso dei droni in quei paesi, gli Stati Uniti fanno ricorso al diritto all’autodifesa sancito dal diritto bellico e all’Authorization for the use of military force against terrorists (l’Autorizzazione all’uso della forza militare, Aumf), un provvedimento approvato dal Congresso il 14 settembre del 2001, tre giorni dopo l’attacco al World Trade Center. Questa norma concede al presidente il potere di “usare tutti i mezzi necessari e appropriati” per perseguire i terroristi che hanno “pianificato, autorizzato, commesso o facilitato” gli attacchi del 2001, e che quindi costituiscono un serio pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti. Il punto di vista dell’amministrazione Obama è stato riassunto a marzo del 2010 da Harold Koh, il principale consulente legale dell’amministrazione Obama, che in un discorso all’American society of international law ha detto: “Gli Stati Uniti stanno combattendo un conflitto armato contro al Qaida e contro i talebani, in risposta agli orribili attacchi dell’11 settembre. In questo contesto potrebbero decidere di usare la forza in accordo con il diritto all’autodifesa sancito dal diritto internazionale”. Secondo Koh questo principio si applica anche “alle operazioni letali condotte con i mezzi a pilotaggio remoto”. Ad aprile del 2012 John O. Brennan, all’epoca consigliere della Casa Bianca per l’antiterrorismo e attuale direttore della CIA, ha definito la strategia “legale, etica e saggia”.
Secondo questo punto di vista gli Stati Uniti non violerebbero neanche il principio della distinzione tra militari e civili, perché gli estremisti islamici si nascondono tra i non combattenti proprio per rendere gli attacchi più difficili, quindi la responsabilità della morte dei civili sarebbe loro e non del governo americano.
Queste argomentazioni sono confutate dagli analisti, dagli attivisti, dai politici e dai militari (pochi) che si oppongono all’uso delle armi robotiche, negli Stati Uniti e in Europa. Prima di tutto, contestano il diritto all’autodifesa invocato dagli Stati Uniti. Il diritto bellico afferma che tutte le nazioni hanno il diritto di difendersi da un attacco imminente. Ma Washington non può dimostrare che gli estremisti che si trovano nel nord del Pakistan o nel sud della Somalia costituiscano una minaccia imminente alla sicurezza del territorio americano.
La seconda critica riguarda gli obiettivi che il governo degli Stati Uniti inserisce nelle kill list e cerca di eliminare con i droni. Tra il 2002 e il 2013 il governo americano ha ordinato 362 attacchi in Pakistan e 54 in Yemen, e nonostante questo i nomi sulle liste non sono mai scesi sotto la doppia cifra. Questo perché i criteri per la compilazione delle liste variano in continuazione e i potenziali obiettivi continuano ad aumentare. La paura, cioè, è che i droni possano diventare l’arma di una guerra potenzialmente infinita.
Poi c’è la questione dei civili. Gli attacchi dei droni avvengono generalmente in contesti di cui gli Stati Uniti hanno una conoscenza molto limitata. Può succedere, per esempio, che la fonte dell’intelligence sia poco affidabile e si finisca per bombardare la casa sbagliata. I casi di errori di valutazione che hanno portato all’uccisione di civili sono molti, soprattutto in Pakistan. In quel paese gli Stati Uniti hanno fatto spesso ricorso ai cosiddetti signature strikes. Al contrario dei personal strikes, in cui i droni sono usati per colpire una persona o un gruppo di persone di cui si conosce l’identità, i signature strikes vengono ordinati sulla base delle attività che il potenziale obiettivo sta svolgendo. In paesi come lo Yemen, con un alto livello di conflittualità interna, o come la Somalia, dove in alcune zone vige l’anarchia, probabilmente la metà della popolazione potrebbe svolgere prima o poi delle attività “pericolose”, quindi metà della popolazione potrebbe diventare prima o poi un possibile obiettivo.
Il fatto che il contesto giuridico sia formato da principi di diritto elaborati non più tardi della seconda Guerra mondiale non aiuta a fare chiarezza. Il diritto bellico e il diritto internazionale umanitario sono stati creati per regolare armi e conflitti tradizionali e mal si adattano ai conflitti di oggi, in particolare alle armi robotiche. Per questo analisti e studiosi – come Peter W. Singer, uno dei maggiori esperti di tecnologie robotiche – propongono l’adozione di norme specifiche per regolare l’uso dei droni.
Ultime sui droni
Qualche account Twitter da seguire per tenere d’occhio le notizie e la discussione internazionale sull’uso dei droni:
@coracurrier – Giornalista di ProPublica, si occupa di terrorismo e difesa.
@drones – Notizie e commenti sulle operazioni a distanza degli Stati Uniti.
@ MicahZenko – Professore di relazioni internazionali, tra i più esperti e autorevoli in materia.
@TBIJ – L’account del Bureau of Investigative Journalism. Aggiornamento in tempo reale sugli attacchi in Somalia, Yemen e Pakistan.
@dronestagram – I luoghi degli attacchi dei droni ricostruiti con Google Maps.
foto: un drone Predator a Kandahar, Afghanistan. (MASSOUD HOSSAINI/AFP/Getty Images)