Il disastro del Columbia
La storia e le foto dello Shuttle che il primo febbraio del 2003 si disintegrò sopra il Texas, con sette persone a bordo, e che cosa fu ad andare storto
di Emanuele Menietti – @emenietti
Rick D. Husband era uno di quei bambini che da grande voleva fare l’astronauta. Ma a differenza di milioni di altri ragazzini in giro per il mondo, Husband da adulto astronauta lo divenne sul serio. Texano di Amarillo, città di canzoni country e della Route 66, a 45 anni era salito a bordo dello Shuttle Columbia per la sua seconda missione da comandante. Era metà gennaio del 2003 ed era partito con un lancio, che aveva creduto perfetto, insieme con sei altri astronauti dal Kennedy Space Center della NASA in Florida. Tutti e sette condussero con successo la loro missione, la STS-107, senza immaginare che quel capolavoro di tecnologia che era la navicella che li ospitava, di lì a qualche giorno, il primo febbraio di dieci anni fa, sarebbe diventata anche la causa della loro morte, filmata e vista da milioni di persone in tutto il mondo.
Il Columbia era il secondo Shuttle a essere stato costruito dalla NASA e il primo ad avere compiuto un volo spaziale completo con la missione STS-1 nell’aprile del 1981. A inizio 2003 aveva portato e riportato dall’orbita 27 diversi equipaggi nel corso di altrettante missioni e il 16 gennaio era pronto sulla rampa di lancio per portarne un ventottesimo. La missione non era però iniziata sotto i migliori auspici, diciamo: a causa di diversi problemi tecnici e disguidi il lancio era stato progressivamente rimandato. La NASA lo aveva messo in programma per l’11 gennaio del 2001 ma la data fu spostata in avanti per ben 18 volte, cosa che si era rivelata alquanto frustrante per i responsabili della missione e i membri dell’equipaggio.
Il 16 gennaio 2003 era infine tutto pronto per il lancio. Le condizioni meteo in Florida erano ideali e i problemi tecnici riscontrati nei mesi precedenti erano stati tutti affrontati e risolti. A bordo del Columbia oltre a Husband c’erano William C. McCool, Michael P. Anderson, l’israeliano Ilan Ramon, Kalpana Chawla, David M. Brown e Laurel Blair Salton Clark. Il centro di controllo della NASA diede tutti i “go” necessari e alle 14:39 (ora italiana) il Columbia fece la sua classica e fragorosa partenza spinto dai suoi tre motori a razzo e soprattutto dalla coppia di razzi a propellente solido, quelli bianchi alti ai due lati dell’enorme serbatoio esterno (ET), arancione. Tre elementi che si staccavano dagli Shuttle terminata la fase di lancio per ricadere sulla Terra ed essere recuperati nell’oceano.
Andò tutto per il verso giusto, o almeno così pensarono i responsabili della NASA e i membri dell’equipaggio. Ancora una volta l’incubo del Challenger, l’unico Shuttle a essersi disintegrato alla partenza, era stato messo da parte dopo i primi minuti di viaggio della navicella verso lo spazio. Nella turbolenta fase di lancio, si sarebbe scoperto in seguito, si era però staccata una parte della schiuma usata come isolante termico per l’ET. Il detrito, grande quanto una valigetta ventiquattrore, era precipitato nello spazio tra l’ET e il Columbia, andando a colpire e a danneggiare alcuni pannelli dello scudo termico dello Shuttle sulla sua ala sinistra. Accadde quando la navicella si trovava a un’altitudine di 20mila metri e viaggiava a una velocità di 840 metri al secondo.
Era già successo in passato che una parte della schiuma isolante del serbatoio si fosse staccata durante le fasi di lancio. Il fenomeno era stato osservato in almeno altre quattro missioni e per questo motivo la NASA aveva montato, per la prima volta, proprio sul Columbia una telecamera apposita per monitorare l’andamento dell’ET fino al suo completo distacco dallo Shuttle. Due ore dopo il lancio, come da routine, fu esaminato il video della partenza del Columbia e non fu rilevato nulla di strano. Il giorno seguente un altro video con una migliore definizione permise di identificare il distacco della schiuma e l’impatto dei detriti sull’ala sinistra della navicella, anche se non fu possibile identificare il punto preciso a causa della posizione della telecamera per il monitoraggio.
Come si sarebbe scoperto dopo l’incidente grazie alle inchieste governative sul disastro, la NASA non fu in grado di fare una precisa valutazione del rischio legato al danno subito dal Columbia alla partenza. Le richieste di realizzare immagini più dettagliate del punto di impatto della schiuma sullo scudo termico furono in gran parte ignorate, ma molto di che cosa accadde nella valutazione del rischio rimane a oggi segreto di stato. L’intero processo, si sarebbe concluso in seguito, fu condizionato dall’atteggiamento dei responsabili della NASA, convinti che non si sarebbe potuto fare nulla anche se il danno fosse stato identificato e valutato completamente. Dopo diverse analisi, anche di modelli statistici, la NASA concluse che il danno arrecato allo scudo termico era un problema di non fondamentale importanza.
Alle 14:10 del primo febbraio, all’equipaggio del Columbia fu comunicato il “go” per spostare lo Shuttle dall’orbita in cui aveva viaggiato per quasi 16 giorni. L’operazione fu eseguita qualche minuto dopo da Husband e McCool utilizzando due motori di manovra. In quel momento lo Shuttle era capovolto. Oltre 280 chilometri più in basso c’era l’Oceano Indiano. La navicella rallentò dai suoi 7,8 chilometri al secondo e circa mezz’ora dopo lasciò lo spazio per entrare nell’atmosfera, il grande involucro intorno al nostro pianeta che ci consente di vivere.
La compressione dei gas atmosferici causata dal volo ad alta velocità comportò un rapido aumento della temperatura sullo scudo termico del Columbia. Ai loro bordi, le ali raggiunsero i 1.370 °C in pochi minuti. A una velocità di circa 30mila chilometri orari, lo Shuttle compì una manovra programmata spostandosi verso destra e poi un altro movimento per ridurre la velocità e di conseguenza la temperatura. Alle 14:50 la navicella e le sette persone a bordo iniziarono il momento più critico del rientro, quello in cui lo scudo termico raggiungeva il massimo surriscaldamento a oltre 1.500 °C.
Il Columbia si trovava a circa 70mila metri di altitudine quando iniziò a perdere alcuni pezzi, fenomeno visibile nel cielo della Costa Occidentale dove non c’era ancora stata l’alba (9 ore in meno rispetto a quella italiana) da alcuni appassionati che stavano filmando il rientro della navicella: raccontarono dopo il disastro di avere visto alcuni detriti luminosi, perché incandescenti, staccarsi dalle ali dello Shuttle. A terra, il direttore di volo della NASA fu avvisato che i sensori sull’ala sinistra del Columbia avevano smesso di funzionare e inviare dati.
Alle 14:54 lo Shuttle si trovava sopra lo stato del Nevada, dove diversi testimoni osservarono alcuni lampi di luce prodotti dalla navicella. Nei minuti seguenti il Columbia proseguì il proprio rientro sorvolando in successione lo Utah, l’Arizona, il New Mexico e infine il Texas, dove passò a una altitudine di 63mila metri e a una velocità di quasi 21mila chilometri orari. Erano le 14:58 e la navicella perse dall’ala sinistra una delle piastrelle dello scudo termico che sarebbe stata trovata successivamente vicino Littlefield, nel nord-ovest del Texas.
“Roger, uh, bu…” furono le ultime parole ricevute quel giorno dal Columbia. Erano le 14:59 (le 8:59 sulla Costa est degli Stati Uniti) e nei cieli del Texas lo Shuttle stava diventando un insieme di piccole luminosissime meteore. Nei secondi seguenti continuarono a disintegrarsi e a ridursi in pezzi sempre più piccoli. Il modulo in cui si trovava l’equipaggio fu l’ultimo a distruggersi poco dopo le tre del pomeriggio e sparì dalla vista di chi osservava allibito da terra in meno di un minuto. Centinaia di piccoli detriti caddero in un’ampia area del Texas e ci sarebbero voluti giorni e giorni di lavoro per recuperarli tutti, portarli ai centri di ricerca della NASA e avviare le indagini per ricostruire le cause del disastro. Lo Shuttle Columbia si era disintegrato.
In pochi minuti la notizia fece il giro del mondo, finendo nelle edizioni straordinarie di tutti i principali telegiornali. Alle otto di sera, le due del pomeriggio a Washington, l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush ebbe il difficile compito di annunciare quanto accaduto al popolo americano. Anni prima era successo a un altro presidente repubblicano, Ronald Reagan, che aveva tenuto un commovente discorso televisivo per il disastro del Challenger. Dalla Casa Bianca, Bush disse: “Il Columbia è perduto; non ci sono sopravvissuti”. Mostrò la propria vicinanza ai familiari e agli amici degli astronauti morti, rassicurò la nazione e confermò che l’incidente, per quanto grave, non avrebbe in alcun modo fermato “il nostro viaggio nello spazio”, la “causa per cui sono morti” i membri dell’equipaggio.
In seguito all’incidente la NASA condusse una propria indagine, seguita da un’altra inchiesta indipendente. La conclusione, dopo mesi di studi e di analisi, fu che a causare l’incidente fu la frattura sull’ala sinistra del Columbia causata al momento del lancio dal distacco di una parte di schiuma isolante dal serbatoio: il buco consentì ai gas caldi nella fase di rientro di penetrare nell’ala indebolendone la struttura. Furono duramente criticate alcune scelte effettuate dai responsabili della NASA e fu messa in luce una certa impreparazione, tecnica e anche di atteggiamento, da parte di alcune persone, nel valutare il rischio per quanto riguardava il danno subito alla partenza dallo Shuttle. Si concluse anche che la NASA avrebbe potuto avviare una missione di salvataggio, per quanto rischiosa, utilizzando un altro Shuttle o facendo tentare ai membri dell’equipaggio del Columbia una passeggiata spaziale per riparare il danno all’ala sinistra.
Preparare uno Shuttle per una missione di salvataggio era considerato poco praticabile, perché di norma richiedeva tempi non compatibili con quelli stretti dovuti alla scarsità di acqua, corrente e ossigeno sulla navicella già in orbita. All’epoca era però quasi pronto lo Shuttle Atlantis, la cui partenza era prevista per il primo marzo. La NASA avrebbe potuto lanciare questo secondo Shuttle il 10 febbraio, in tempo utile. Ma si sarebbe comunque trattato di una missione pericolosa e che avrebbe messo a rischio la vita di un secondo equipaggio. Far riparare il danno all’equipaggio con una “passeggiata spaziale” non sarebbe stato ugualmente facile, anche perché a bordo il Columbia non aveva tutti gli strumenti necessari per effettuare una riparazione affidabile.
Il disastro del Columbia portò alla sospensione del programma spaziale degli Shuttle e comportò anche un ritardo nei lavori di costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Gli Shuttle tornarono a volare, con il Discovery, nell’estate del 2005. Nell’anno e mezzo di pausa, i tecnici della NASA elaborarono nuove procedure e sistemi per verificare l’integrità degli isolanti termici sulla navicella, grazie alla dolorosa lezione del Columbia.
In onore dei sette membri dell’equipaggio, la NASA ha nominato altrettanti asteroidi che erano stati scoperti nel 2001 con i loro nomi. Su Marte, il luogo in cui è atterrato il robot automatico (rover) Spirit è stato chiamato Columbia Memorial Station. Presso il Cimitero nazionale di Arlington, in Virginia, una lapide ricorda la storia e l’equipaggio del Columbia. E in Texas, dove la navicella si sbriciolò in cielo, la città di Amarillo ha dedicato il proprio aeroporto a Rick Husband, il comandante della missione originario della città. Il ragazzino che da grande aveva fatto l’astronauta.