Generazione sazia
I ragazzi sono diventati diversi? Giocano senza voler vincere? Nel suo nuovo libro Concita De Gregorio dice di sì, per ragioni "seminate dai nonni e ignorate dai padri"
di Concita De Gregorio
A ridosso degli scrutini di fine anno mi convoca la coordinatrice di classe di mio figlio Lorenzo, 15 anni. È la prof di italiano e storia: una persona di vedute molto ampie, colta senza presunzione e di gran cuore. Vuole bene a Lorenzo, evidentemente. Lo so da mille dettagli: lo aiuta, lo segue, è indulgente senza smettere di essere esigente. Anche lui ne ha rispetto. Bene, dunque. Un buon insegnante a questa età è una grande fortuna.
La prof. mi accoglie in sala professori col sorriso e mi dice che Lorenzo, purtroppo, potrebbe essere rimandato in storia. È quasi sicuro, dal momento che alle interrogazioni alla cattedra nell’ultimo pentamestre (sì, non ci sono più i trimestri di una volta) ha fatto sempre scena muta. La prof pensa che Lorenzo abbia studiato, ci ha parlato e lui glielo ha giurato: ma, le ha anche detto, quando viene chiamato a rispondere improvvisamente sente come un blocco, non ricorda più niente, è incredibile, è una cosa difficilissima da spiegare ma si paralizza e dalla sua bocca non esce una parola. La prof mi dice che potrebbe trattarsi di dismemorìa. Ha seguito un seminario di recente. È un disturbo più diffuso di quanto non si creda. Un difetto della memoria tampone, quella a breve termine: uno studia anche tantissimo, impara a mente persino, ma poi non è in grado dopo appena un giorno di ricordare niente.
Sono sbalordita. Non ne ho mai sentito parlare. Conoscevo la dislessia, disturbo serissimo e in tempi recenti epidemico – per via dei miglioramenti diagnostici, certo – la disgrafia, che una volta si confondeva con la brutta calligrafia ma oggi sappiamo invece che è una fuga tangenziale della mente che impedisce di riprodurre correttamente i segni grafici, spesso associata alla disprassia, anche questa la conosco, disturbo della coordinazione e del movimento che impedisce per esempio di allacciarsi correttamente le stringhe delle scarpe da cui l’uso massiccio, in commercio, delle scarpe da ginnastica con lo stretch. Fare i fiocchi alle stringhe è una cosa novecentesca, obiettivamente inutile, non si vede perché accanirsi visto che esiste lo stretch.
La dismemorìa però non l’avevo mai sentita nominare. Siccome ho sviluppato purtroppo un certo cinismo visualizzo immediatamente i volti di alcuni campioni olimpici di dismemorìa, tutti attualmente al governo, ma non mi lascio distrarre e ascolto. La prof mi dice che è quasi sicura che Lorenzo soffra di questo grave disturbo. Ricorda perfettamente nozioni remote, dice, ma non quelle recenti. Perciò mi suggerisce di fargli fare un test clinico. Perché, aggiunge, se avessimo una diagnosi di dismemorìa certificata, lei capisce signora, in sede di consiglio dei docenti non ci sarebbe nessuna discussione: il ragazzo sarebbe promosso a giugno, come è giusto che sia date le sue qualità.
Mentre torno a casa penso che Lorenzo non ha studiato storia. Mai. Non ha proprio aperto il libro. E penso anche, però, che è stato capace di convincere la professoressa di essere vittima di una menomazione che non poteva conoscere, ma che per sua massima fortuna invece esiste ed è addirittura catalogata e nota. Chissà cosa deve averle detto. Questi ragazzi hanno imparato dall’asilo l’imperativo categorico del tempo: esibirsi, dimostrare carattere, rifuggire l’anonimato, sedurre, piacere. Raccontare balle, detto in soldoni, ma raccontarle bene. Penso che se lo rimandano a settembre è giusto. Studia tutta l’estate e poi vedrai se non risponde alle domande sul Concilio di Trento. Appena torna mi sente.
Anche il prof di greco ha le sue rimostranze. Dice che questi ragazzi sono ‘saturi’. Che non hanno motivazione al successo scolastico. Dice che sono sovraccarichi di stimoli, e che non hanno ‘ansia di riscatto sociale’. Dice proprio così. Poi mi racconta che lui è cresciuto in Calabria da genitori poverissimi, e che non potendosi comprare i libri ha studiato tutta la vita in biblioteca. Che per lui il greco era una religione, vedeva quella strada come la via per la liberazione dal bisogno. Che certo, se uno ha centomila libri a casa in biblioteca non ci va. E che però finisce per non dare nessuna importanza ai libri, così. Quello che hai in eccesso non ha valore. “Se voi scaricaste le casse ai mercati generali i vostri figli sarebbero più bravi a scuola”, mi dice. Immagino di andare a scaricare le casse ai mercati generali per favorire lo studio di Lorenzo. Indugio nella fantasia, non mi dispiace. Immagino la fatica, la luce e l’odore del pesce la mattina all’alba. Penso a Lorenzo in biblioteca, ansioso di un destino diverso. Rabbioso, dunque bravo a scuola. Penso che il prof di greco ha ragione, in un certo senso. Ma penso anche che noi non abbiamo colpa di essere quello che siamo, che è andata così, non ci hanno regalato niente. Accidenti se non ci hanno regalato. Penso che se domattina comunicassi la mia decisione di licenziarmi e di andare a lavorare ai mercati generali non è detto che automaticamente Lorenzo imparerebbe a tradurre Senofonte. Non è reversibile, il processo. Per fortuna o purtroppo.
Cambio quadro, che a due generazioni di distanza c’è Bernardo, 9 anni. (Digressione: ho imparato di recente che le generazioni oggi si misurano da quanti anni avevi quanto è uscito l’iPhone sul mercato. Se ne avevi 10, 14 o 18 è enormemente diverso. Avevi un account di posta elettronica prima o dopo i dieci anni? A che età eri su MySpace? Hai cominciato a comprare cliccando accetta su Paypal senza bisogno della password, ché quella di famiglia era memorizzata? Hai saputo naturalmente, senza sapere perché, cosa sia un browser o hai avuto bisogno che te lo spiegassero e nonostante le spiegazioni non hai ancora davvero capito? Possono passare sei mesi, fra una generazione e un’altra, se l’unità di misura è questa).
Dunque, Bernardo. Il piccolo di casa. Quello che a tre anni diceva ‘quitta’ per dire vattene, perché sul computer il comando quit significa ‘esci’. Chiamano gli allenatori della squadra di rugby. Gente solida, pratica. Sono gli allenatori della under nove, da anni praticamente dei baby sitter: prendono i bambini e li portano in trasferta, eroici, anche per tre giorni. Li amiamo. Piuttosto preoccupati, direi meglio seri, ci informano che da qualche anno hanno notato che quando arrivano alla pre-agonistica, a 14 anni, i ragazzi sono molli. Demotivati. Non competitivi. Sono bravi, per carità. Giocano bene. Ma non sono incazzati. Non combattono per vincere. Non gliele frega niente del risultato. Vanno lì, si divertono, si placcano un po’, poi basta. Allora per evitare che succeda questo anche ai nostri – che se uno fa sport l’idea di vincere una gara non è poi così balzana, diciamo che dovrebbe far parte dell’orizzonte di scenari possibili – consigliano, gli allenatori, di smettere di preparare noi le borse. L’ideale sarebbe che i ragazzi se le facessero da soli, mettendoci dentro tutto quello che gli serve e se se lo dimenticano pazienza. Tipo: se si dimenticano il paradenti e quel giorno si rompono un dente vedrete che nella vita il paradenti non se lo dimenticheranno più. Questo è sicuro, ma il terrore dei genitori all’idea di un figlio col dente rotto è ugualmente palpabile. Un dente rotto è per sempre. Significa protesi, dentista, controlli periodici, sorriso difettoso. Gli allenatori capiscono, non vivono mica fuori dal mondo. Va bene, dicono: il paradenti potete metterglielo voi in borsa. Però dovreste evitare di entrare negli spogliatoi a fargli la doccia ed asciugargli i capelli, una mano al phon e l’altra a scompigliare l’attaccatura sulla nuca. Dovreste evitare di ricomprargli i pantaloncini ogni volta che li dimenticano in trasferta, che sennò non c’è motivo per cui dovrebbero ricordarsene. Insomma dovreste lasciarli fare, così che si sentano un po’ responsabili delle loro cose, delle conseguenze delle loro azioni, così che capiscano che devono impegnarsi per ottenere un risultato. Pensate di potercela fare? Silenzio. Segue, per e-mail, pomeridiano e serale dibattito.
Mi vengono in mente le scene dei film di Moretti in cui bambini despoti tengono in ostaggio i grandi al telefono. In particolare la sequenza tragica su “com’è il verso delle balene”? Il bambino fa domande inessenziali – dove sei, quando torni – chiama semplicemente per ricordare al genitore che lui non è lì con lui in quel momento, che non gli sta leggendo una favola non sta giocando alle Winx o ai Pokemon. Chiama per disturbare, lo so che detto così è brutto e dà fastidio ma è questo che fa: chiama per ricordare al genitore che qualunque altra cosa stia facendo – lavorare, leggere, studiare, fare l’amore, mettere a punto un telescopio, discutere un contratto collettivo – niente può essere più importante che dedicarsi al proprio figlio, fargli sentire che ha la priorità su tutto il resto, niente ha più importanza di fronte al suo bisogno.
Ma è un bisogno? È giusto assecondare ogni frazione di capriccio? È utile alla crescita, allo sviluppo, all’armonia di una personalità equilibrata?
Non lo so, davvero non lo so. Gli allenatori di rugby ci dicono che l’ideale sarebbe che i bambini fossero lasciati un po’ da soli con le loro decisioni, coi loro errori e con le loro mancanze perché non c’è niente di più istruttivo dell’errore, questo ciascuno lo sa. I genitori hanno paura degli errori dei figli, delle loro debolezze, perché pensano di poterli e di doverli prevenire, evitare, correggere in radice. Perché si sentono in colpa, in definitiva. I bambini crescono saturi, come dice il prof di greco, privi di bisogni essenziali e di desideri profondi. Non tutti, certo. Esistono bimbi che non hanno niente, basta allontanarsi un poco dall’orizzonte della sazietà illuminata della borghesia progressista occidentale per vederlo. Però è anche vero che questo è il modello dominante. Perfino in Africa le pubblicità dei pannolini hanno come protagonisti una coppia di genitori giovani, relativamente chiari di pelle, sorridenti e dediti al loro unico figlio immortalato nella foto. Persino in Africa, dove i bambini sono neri, ne nascono dodici per famiglia e i pannolini, quelli usa e getta delle multinazionali, non li usa nessuno.
Il pericolo del “si stava meglio quando si stava peggio” è in agguato, lo so. Ma davvero non è questo il punto: è che nell’arco di pochi anni qualcosa di definitivo è successo e sarebbe meglio capire cosa. Io me lo ricordo quando i nonni ci dicevano che non si doveva parlare se non interrogati, che non si dovevano contraddire le persone adulte (“anche se uno sbaglia tu non lo devi correggere in pubblico”, mi raccomandava mia nonna. Non devi mettere nessuno in imbarazzo). Mi ricordo di quando ai bambini si chiedeva principalmente di tenere in ordine le loro cose, di essere puliti e obbedienti. Non era moltissimo tempo fa, diciamo quarant’anni. Leggo, nello studio di Miriam Gebahrdt “La paura dei bambini tiranni”, che dal 1966 al ’77 l’obiettivo educativo “obbedienza” è passato dal numero uno della classifica al numero quattordici. L’obiettivo “ordine” dal quarto posto al ventiduesimo. Certo, una volta nascevano otto figli in media per famiglia, ne sopravvivevano la metà. Oggi ne nasce uno-barra-due ed è già un lusso, quando accade. Una specie di miracolo. Perciò i bambini non fanno chiasso ma un meraviglioso suono, una musica. Sono invitati ad esprimersi liberamente, a dipingere le pareti di casa a saltare nudi sui letti ad interrompere quando vogliono coi loro magnifici non-sense improvvisamentee dotati di un senso filosofico definitivo, sono sollecitati ad esibirsi ed esprimersi, a cantare e ballare sebbene con esiti tragici eppure sempre applauditi, soprattutto sono invitati a parlare: a dire tutto quello che gli passa per la mente, per l’estasi di genitori disposti ad incorniciare le loro massime. Io mi ricordo di quando i miei nonni si davano del lei, i miei genitori si assentavano per periodi lunghi e si scrivevano lettere di carta dense di parole pesanti, assai più pesanti del “dove sei? Stai già dormendo? Stasera ho mal di pancia” dei tweet e degli sms, dei dialoghi in chat e su Skype che ci consentono oggi di dire qualunque sciocchezza in qualunque momento e che ci fanno sentire perduti se non siamo connessi, se in albergo il wifi non funziona.
Assai meglio di me lo racconta Meredith Haaf, una studiosa tedesca nata nel 1983, 29 anni, che scrive come Giovanni Sartori e racconta lo sperdimento della generazione satura in un libro, “Piangete pure”, sfortunatamente non tradotto in italiano. La saggissima Meredith descrive la generazione nata fra gli anni Ottanta e il Duemila. “Post-ottimista”, dice. Fragile, rassegnata, indifesa. Malata di una rabbia debole, la rabbia schiumosa e inutile dei “mi piace” su Facebook. Incapace di partecipare alla vita pubblica perché convinta di farlo dal computer di casa, e soprattutto ossessionata da proprio profilo. Istruita fin dall’asilo a comunicare correttamente le proprie caratteristiche, premiata per l’originalità delle opinioni assai più di rado per l’incidenza delle azioni, dissuasa dal conflitto, educata alla mediazione, istruita al pragmatismo che è il contrario dell’utopia, dunque nemica delle passioni tra le quali si annoverano lo sdegno e l’ira, cresciuta con le tariffe “io e te” nell’amore su schermo a distanza, estranea alla rabbia giusta, quella che dalla notte dei tempi – dalla cacciata di Adamo ed Eva fino alle rivoluzioni di piazza contro le odierne tirannie – sana l’ingiusto, o prova a farlo. Convinta di esserci quando si limita ad approvare, o a rimuovere: “nascondi”, dice il tasto con cui disapprovi o non partecipi on line. Nascondi, rimuovi alla vista. Indirizzata a studiare “scienza della comunicazione”, facoltà che illustra i metodi più efficaci per la diffusione della parola, per la formazione di un curriculum dotato di fotogallery, possibilmente di video da scaricarsi su Youtube. Sostanzialmente inerte, troppo veloce per trattenere alcunchè, non solidale né responsabile giacchè entrambe le categorie prevedono una condivisione di fini che laddove il fine è impercettibile – irraggiungibile, utopistico, chimerico – si risolve in uno spreco di energia.
Il lavoro di Meredith Haaf, fondamentale perché fondato sulla testimonianza diretta, descrive in definitiva la rabbia debole. La protesta gracile, il la-la-la infantile di una generazione sazia e annoiata, incapace di rivoluzioni per assenza di ambizioni condivise. La colpa, giacchè di colpa sempre si parla, non è loro. Le ragioni vengono da lontano, seminate dai nonni e ignorate dai padri.
Ai bambini molto piccoli e molto arrabbiati – annoiati, malmostosi, dispettosi, a volte persino feroci – giova in genere più della terapia farmacologica (o almeno tanto quanto) una sincera rieducazione all’autogestione del malumore. Che è legittimo, spesso, e quasi sempre utile ad apprezzare – per riflesso – il buonumore. Ho amato le sessioni di lavoro di Bruno Tognolini, poeta e menestrello di rime solo in apparenza per bambini. Conosco adulti anche celebri e stimatissimi che usano al posto del Maalox la sua filastrocca “mal di pancia calabrone” contro la gastrite. L’ho visto lavorare come un pifferaio magico, incantando classi d’asilo improvvisamente ammutolite dalla cantilena dei suoi versi. Conosco il potere terapeutico delle “Rime di rabbia”, cinquanta invettive che da bambino mio figlio Bernardo ha imparato a memoria (non tutte, ma quasi) senza che nessuno gliele insegnasse, così da mettermi al riparo da un’eventuale futura ipotesi – a suo danno o giovamento – di dismemoria. Se uno impara a cinque anni tutti i nomi dei quattrocentocinquanta Gormiti e le poesie che gli piacciono a memoria è segno chiaro che per accendere l’interesse bisogna prima attivare una passione. La disciplina (e l’ordine, e la pulizia) di conseguenza. La preferita, tra tutte, è stata la numero 48: la “Rima della rabbia giusta”, che per condivisione qui trascrivo. Raccomando di leggerla ad alta voce, anche piano.
Rima della rabbia giusta
Tu dici che la rabbia che ha ragione
È rabbia giusta e si chiama indignazione
Guardi il telegiornale
Ti arrabbi contro tutta quella gente
Ma poi cambi canale e non fai nienteIo la mia rabbia giusta
Voglio tenerla in cuore
Io voglio coltivarla come un fioreVedere come cresce
Cosa ne esce
Cosa fiorisce quando arriva la stagione
Vedere se diventa indignazioneE se diventa, voglio tenerla tesa
Come un’offesa
Come una brace che resta accesa in fondoE non cambia canale
Cambia il mondo
Il nuovo libro di Concita De Gregorio, giornalista di Repubblica ed ex direttore dell’Unità, si chiama Io vi maledico (Einaudi) ed è una raccolta di storie italiane di cambiamento, di fallimento, di crisi e di rabbia: «la geografia esatta del disamore per chi ti ha promesso e poi negato, per chi ti ha illuso, per chi sa solo chiederti e mai dare».