L’intelligenza del denaro
L'introduzione del libro di Alberto Mingardi su soldi, mercati e tempi che corrono: a cominciare da due telefoni
di Alberto Mingardi
È raro che un libro incominci con due immagini, soprattutto se l’autore aspira ad avere lettori che abbiano superato i dodici anni. Ma queste due fotografie ci servono a intenderci, sin da principio, sull’oggetto di cui discuteremo nelle pagine a venire.
Il Motorola Dyna TAC 8000x è il primo «telefonino» (diminutivo ottimistico: pesava 793 grammi) a essere commercializzato. Siamo nel 1983. Costava 3995 dollari, pari grosso modo a 8700 dollari attuali. La batteria si ricaricava in dieci ore: tanto serviva per garantirsi otto ore di funzionamento in stand by o parlare per mezz’ora filata. Michael Douglas ne utilizzava uno nel film Wall Street. Poter parlare ovunque, anche camminando all’alba su una spiaggia, era un sogno accessibile solo a chi stava in cima alla piramide sociale.
Nel 2011 nel mondo si contavano 4,6 miliardi di abbonamenti di telefonia mobile. Secondo una ricerca del regolatore di settore britannico, Ofcom, nel 2010 soltanto nel nostro paese erano attive 155 linee mobili ogni 100 abitanti: gli italiani, insomma, possedevano un cellulare e mezzo ciascuno. Ognuno di questi apparecchi, inclusi quelli più alla moda, costava al consumatore una frazione del cellulare di Gordon Gekko: quello meno caro in commercio ha un prezzo di 11 euro. Ci sono ancora telefonini che trasmettono status: ma sentirsi importante sfoderando l’ultimo ritrovato della tecnologia è diventato molto più abbordabile. E anche più comodo: un cellulare si carica mediamente in una sessantina di minuti, lasciandoci attorno alle cinque ore di conversazione e reperibilità.
La platea dei consumatori s’è enormemente allargata. Nel contempo, sono cambiate le nostre abitudini. Essere rintracciabili ovunque non è più un lusso: al contrario, è cosa talmente normale che ci stupisce che qualcuno possa non esserlo. L’astinenza forzata da cellulare è talmente rara da essere annunciata urbi et orbi: si chiede scusa con una e-mail, con un messaggio preregistrato. La risposta istantanea non è l’eccezione, è la norma.
Aiuta il fatto che, se i primi telefoni portatili pesavano all’incirca mezzo chilo, oggi ce ne sono in circolazione che fermano l’ago della bilancia a meno di 100 grammi (il più piccolino, appena a 40).
Persino più sorprendente è la mutazione del cellulare in quanto oggetto. Non è cambiato quanto pesa o quanto costa, bensì proprio quello che può fare. Meno di una generazione fa pareva miracoloso che la voce potesse essere trasmessa da un capo all’altro del mondo «senza fili»: oggi si inviano messaggi di testo, si consulta internet dal palmo della mano, si gioca a distanza ai videogame, si scattano fotografie, si registrano filmati.
Col senno di poi, la tentazione è quella di ripercorrere quest’evoluzione come una corsa, sì in salita, ma fra una linea di partenza e un traguardo. È facile immaginare una lunga catena che lega avanzamento delle conoscenze tecniche, diffusione dei cellulari, maggiori investimenti nel settore, messa a punto di nuove funzioni. Ma la realizzazione, l’invenzione, la commercializzazione di nuovi apparecchi non sono avvenute così, in omaggio a un unico disegno, tutte parte di un medesimo piano. Non è successo che il presidente degli Stati Uniti, o di qualsiasi altra nazione, alzasse la cornetta e comandasse ai migliori ingegneri del paese di lavorare, costi quel che costi, a un apparecchio che somigliasse sempre di più al Communicator di Star Trek. Fra l’altro, quella sorta di walkie-talkie spaziale con cui il capitano Kirk e il signor Spock si scambiavano notizie a chilometri di distanza per noi è già storia vecchia: ci spediamo immagini da un continente all’altro come fosse la cosa più banale del mondo. È la cosa più banale del mondo.
Ad averla resa tale è un processo complesso, in cui hanno giocato una parte infiniti attori. La parola «innovazione» oggi è molto popolare, ma le innovazioni che hanno radicalmente trasformato il telefono cellulare in un oggetto ormai indispensabile non hanno a che fare soltanto con la crescita dello stock di conoscenze a disposizione. C’è una frontiera del tecnologicamente possibile che via via si è spostata. Anche in quel caso, tuttavia, non sono stati pochi soggetti consapevoli del proprio operato a spingerla avanti in solitudine.
Tutto comincia, per così dire, dalla coda. Cioè proprio da quelli che più invariabilmente difettano di cognizioni tecniche precise: da noi consumatori.
A parte forse pochi appassionati, nessun utilizzatore di cellulari ha un’idea precisa di che cosa avvenga quando accende il suo. Come esso effettivamente funziona è un segreto iniziatico: ne sono a parte pochissimi, che di norma lavorano per una ditta del settore. Ma se non sappiamo di preciso cosa capita quando il nostro telefonino prende vita, esattamente come la maggior parte di noi ha un’idea confusa del ruolo degli impulsi nervosi nel consentire i propri movimenti o di come, schiacciando un interruttore, una lampadina decida di illuminarsi, al contrario abbiamo maturato idee chiarissime su quale dev’essere l’esito dell’arcano processo che si cela ai nostri occhi. Lo schermo deve trasmettere immagini, la tastiera deve recepire i nostri comandi, una volta composti dei numeri deve raggiungerci una voce che suoni vicina in barba alle distanze.
Ecco che cosa noi consumatori sappiamo per certo: sappiamo benissimo ciò che ci aspettiamo il nostro telefonino faccia. Le nostre aspettative mutano ed evolvono: sono cambiate, eccome, negli scorsi ventinove anni. Ma è folle illudersi che il consumatore si limiti a ricevere ciò che gli è dato, il piatto del giorno della tecnologia. Dietro al cellulare, per come lo conosciamo oggi, c’è tutto un tira e molla.
Per semplificare, pensiamo non a un telefono ma a una torta. Al pasticciere la fantasia suggerisce mille ricette. Queste ricette, per essere realizzate, hanno bisogno di ingredienti. Non tutti gli ingredienti sono uguali: non solo per il gusto, ma anche perché alcuni di essi sono molto comuni e poco costosi, altri invece più esotici e rari, e di norma più cari. Il pasticciere deve pensare a come combinarli in modo che l’esito risulti gradito al palato dei suoi clienti. Quanto usare dell’uno e quanto invece dell’altro, non dipende soltanto dalla sua volontà. Sarà tentato di ricorrere con maggiore generosità a materie prime meno impegnative, ma anche il prezzo di queste ultime non dipenderà soltanto dalla loro abbondanza o penuria. Lo stesso frutto può essere utilizzato per gli usi più diversi: ben prima che arrivi sul tavolo da cucina del pasticciere, chi ne detiene in gran numero penserà quale «sfruttamento» intende incentivarne e quale no. Da quelle sue valutazioni e dal riscontro che trovano dipende, in misura non piccola, anche il prezzo con cui dovrà confrontarsi il nostro inventore di torte. Che potrebbe avere la ventura d’imbattersi in ingredienti nuovi o di mescolare in proporzioni diverse quelli più tradizionali.
Il pasticciere prende ogni giorno decisioni all’apparenza banali. Quante fragole aggiungere a guarnizione della torta alla meringa. Se mettere una punta di zafferano nel nuovo dolce alla crema. Quanto brandy centellinare nella farcitura della Sachertorte. Ciascuna di queste scelte dipende da un numero di variabili più ampio di quanto, armeggiando ai fornelli, il nostro pasticciere si dia pena di scandagliare. La sua esperienza lo porta a muoversi con una disinvoltura che assomiglia a un automatismo. Eppure, nel retropalco delle esibizioni del suo estro di cuoco, c’è il tentativo perenne di compiacere chi dovrà acquistare e consumare l’esito delle sue fatiche.
Per l’appunto, i suoi clienti sono la giuria suprema. Non tutti i cambiamenti, non tutte le innovazioni sopravvivono al verdetto.
Nella misura in cui ne conosce le preferenze, il pasticciere può programmare quanti montebianco e quanti tiramisù dovrà produrre in un giorno. Nella misura in cui crede di indovinarle, potrà aggiungere un sentore di lavanda alla crostata di pere o fare brioche al cioccolato fondente piuttosto che al latte. Se le sue ipotesi di lavoro incontrano il favore del pubblico pagante, venderà e persisterà sulla stessa strada. Se vengono smentite, resterà col negozio pieno di dolci che nessuno vuole e dovrà provare ad adattarsi.
Produrre un cellulare è più complicato che fare una torta: non a caso non basta un negozio di pasticcieria. Ma il modo in cui i telefoni sono diventati strumenti via via più complessi assomiglia sorprendentemente a quello in cui il pasticciere cerca di tenere il passo della sua clientela.
Le risorse (incluse le risorse umane) impegnate per la produzione di cellulari sono cambiate nel tempo. Questo non è un fatto irrilevante.
Il primo produttore a commercializzare un telefonino è stato Motorola, ma il suo successo ha allertato altri imprenditori, che si sono posti il problema di riuscire a entrare nello stesso mercato. L’arrivo di nuove aziende ha incentivato la differenziazione dell’offerta: questa è in qualche misura conseguenza, ma in parte anche causa, della crescita nel numero di consumatori. Moltiplicandosi gli utenti, non è solo aumentata la quantità richiesta di apparecchi mobili – ma è pure cresciuta la domanda potenziale di nuove funzioni. Le preferenze sono individuali: venire incontro a un numero maggiore di clienti significa dover far fronte a una più vasta e più diversificata combinazione di gusti e preferenze.
L’arrivo di nuovi produttori ha consentito che si attivassero mercati che precedono l’incontro fra chi vende e chi compra un telefonino. Più cellulari prodotti e più aziende produttrici implicano l’impegno di un maggior numero di persone, che andranno a concorrere alla realizzazione del nostro cellulare. Anche la domanda di competenze cambia nel tempo: l’afflusso di più teste nell’alveo di un certo settore industriale, però, invariabilmente predispone l’arrivo di idee nuove e fresche. Tocca a persone con un talento particolare – gli imprenditori – scegliere come «impastare» queste nuove idee, per tornare alla nostra torta, ipotizzando che una ricetta piuttosto che un’altra soddisfi al meglio il gusto dei consumatori.
Ogni tanto la realtà supera l’immaginazione. Gli usi più interessanti che vengono fatti di un prodotto sono talvolta proprio quelli che chi lo vende non poteva prevedere. I videotelefonini nascono per venire incontro alla sete di novità dei più viziati «nativi digitali» del mondo sviluppato: ma si sono rivelati uno strumento straordinario per i contadini dei paesi poveri. Non solo il cellulare ha per la prima volta avvicinato gli agricoltori e i mercati sui quali le loro derrate vengono vendute. In paesi come il Kenya, dove le comunicazioni erano pessime prima dell’avvento della telefonia mobile, chi lavorava la terra era in balia di intermediari che lo pagavano il meno possibile, tenendolo all’oscuro del prezzo che riuscivano a estrarre dai frutti del suo lavoro sulle piazze commerciali. Più di recente, la videotelefonia è diventata uno strumento per apprendere nuove tecniche utili per aumentare la produttività: scambiandosi, per l’appunto, filmati (spesso forniti da organizzazioni non governative piuttosto che dalle stesse imprese dell’agroalimentare). Non so quanti dei tecnici che hanno lavorato per rendere sempre più efficienti le microcamere inserite nei cellulari pensassero che qualcuno se ne sarebbe servito per questo scopo – piuttosto che per registrare l’immagine della figlia che spegne le candeline il giorno del compleanno. Il fatto che il percorso non fosse noto, però, non lo rende meno interessante. Se l’esito di un processo non era «pianificato», non per questo è «peggiore».
Del resto, se l’evoluzione del telefono cellulare fosse stata una strada in salita, ma di cui la meta era evidente sin da principio, a rigor di logica ciò implicherebbe che oggi dovremmo adattarci allo strapotere dell’azienda che al cellulare ci è arrivata per prima: Motorola. Come in un romanzo di William Gibson, oggi vivremmo in un mondo in cui tutto – perlomeno tutto quello che è latamente collegato alla telefonia mobile – avrebbe impresso il marchio del primo, pionieristico produttore di telefonini. Partito in anticipo sugli altri, l’operatore avrebbe dovuto godere di una sorta di «interesse composto» delle conoscenze: sommando vantaggio a vantaggio.
Non è stato così. A gennaio del 2011, al culmine dell’era del telefonino, Motorola accusava perdite per più di quattro miliardi di dollari. Per evitare il fallimento, fu divisa in due società, Motorola Solutions e Motorola Mobility, quest’ultima inglobata da un’azienda, Google, i cui fondatori avevano dieci anni quando entrava in commercio il Dyna TAC 8000x.
L’irresistibile ascesa del telefono cellulare è stata insomma qualcosa di diverso e di più della mirabolante crescita delle possibilità tecniche. È stata l’esito di un processo, a tratti contraddittorio e mai scontato, di una lotta silenziosa per accaparrarsi tecnici, per sviluppare per primi idee, per conquistare acquirenti in numero sempre maggiore e, così facendo, accumulare guadagni. Il miglioramento del prodotto e la diminuzione del suo prezzo non erano fini perseguiti in sé e per sé da un qualcuno che, consapevolmente, lì si proponeva di arrivare. Sono stati l’esito storico, solo in certa misura apertamente perseguito, di un’interazione fra una pluralità di attori, ciascuno intento a recitare la sua parte in commedia: venditore di competenze, acquirente di professionalità, venditore di prodotti, consumatore.
Gli strepitosi avanzamenti nella telefonia mobile sono stati dunque il frutto «dell’azione umana ma non dell’umano progettare». L’innovazione non rappresenta l’esito di un disegno coerente, non è una scala che abbiamo salito sapendo che a un gradino ne sarebbe seguito un altro. È un prodotto dell’azione umana: perché, nascosta dietro a ogni tasto del vostro cellulare, sta una lunghissima catena di interazioni e scambi fra persone diverse. Ma non è un prodotto dell’umano progettare: per ventinove anni si sono rincorsi progetti incompatibili l’un con l’altro da parte delle diverse imprese del settore, alcuni hanno avuto successo, altri hanno fallito. Spesso i successi di ieri non sono bastati ad assicurare a nessuno un avvenire calmo e liscio. Raramente esistono imprese che fanno tutto presto e bene: davvero, come diceva Winston Churchill, «avere successo significa passare di fallimento in fallimento senza perdere l’entusiasmo».
La storia di un fantastico miglioramento nelle tecnologie di comunicazione è anche e, forse, soprattutto la storia di progetti andati a vuoto, di fallimenti, di errori. Il «mercato» è precisamente questo. Non è un’«entità», non è una «cosa»: è un processo. Una trama infinita di relazioni nella quale gli errori delle singole parti non inficiano, ma, anzi, rendono possibile il successo del sistema nel suo complesso. Il mercato è una torta impastata da milioni di inconsapevoli pasticcieri.
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È appena uscito per Marsilio L’intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto di Alberto Mingardi, blogger del Post e direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che “promuove idee per il libero mercato”. Il libro verrà presentato lunedì 28 gennaio a Milano al teatro Franco Parenti alle 18 da Rodolfo De Benedetti, Angelo Panebianco, Giuseppe Rotelli e Michele Salvati.