I temi del giornalismo del 2013
Sebbene il 2013 sia appena iniziato, il mondo dei media, e in particolare quello dei media online, conta già alcune novità attorno alle quali si sono generati dibattiti sul futuro della professione, sulla sua sostenibilità – in rete e non – e sulle sue prospettive
di Vincenzo Marino - IJF2013
Prendendo spunto dai trend che si sono imposti in questo settore nel corso del 2012, Hamish McKenzie su PandoDaily ha riassunto in sette punti quelle che potrebbero essere le tendenze editoriali del nuovo anno, e che trovano già in queste settimane alcune notevoli conferme. A cominciare da quella del cosiddetto micropublishing, la pubblicazione di storie e articoli da proporre ai lettori singolarmente e su più formati che negli ultimi mesi è stata riproposta da esperimenti come Weekend Companion del gruppo di The Awl, dal già precedentemente citato Matter, da The Magazine e dai numerosi digital publishing shop nati e cresciuti negli ultimi mesi. Un’idea tesa ad assecondare le abitudini dei lettori mobile e basata su prodotti prettamente testuali, facili da consultare su smarthphone e tablet, leggeri da scaricare e anche piuttosto economici da produrre, dal momento che per la loro ‘linearità estetica’ non necessitano di eccessivi investimenti economici.
Altro tema dominante nel 2013, secondo l’autore (in accordo anche con un Gdoc di 30 pagine prodotto dal digital strategist Nic Newman), potrebbe essere quello della cosiddetta curation, il lavoro di filtraggio e ‘cura’ delle notizie in ambienti di sovraccarico da news e tempi stretti. Figura che si è imposta col crescere dell’uso dei social network come super-fonte per le notizie e piattaforma di condivisione, la figura del curator nei prossimi mesi sarebbe destinata quindi a diventare centrale sulla scorta del motto «more signal, less noise», specie se si pensa all’offerta online attuale, che permette a chiunque, attraverso i già citati social, strumenti come Storify, Storiful e Bundle e applicazioni in stile read it later come Instapaper e Pocket, di dar vita a una sorta di self-powered curation indipendente dall’attività redazionale.
È l’ingesso del lettore in un ambiente ‘quasi’ giornalistico, che gli permette, tramite un’altra tendenza citata da McKenzie, quella dei micropagamenti, di far parte in maniera attiva di un progetto, permetterne la realizzazione partecipando al finanziamento di singoli pezzi o ‘imprese’ giornalistiche, nuove piattaforme, applicazioni o blog. Negli ultimi mesi, e in quelli a venire, sono state lanciate e verranno presentate nuove numerose micropayments startup – come la svedese Flattr e CentUp – che permettono di dare credito, nel vero senso della parola, ai propri autori preferiti: «Ora che siamo abituati a comprare cose coi nostri portafogli mobile, sarà una sciocchezza cominciare a dare qualcosa ai contenuti digitali che più apprezziamo».
La dichiarazione d’indipendenza di Andrew Sullivan
Argomento che porta inesorabilmente a citare uno dei casi più noti e discussi di questo inizio 2013: quello di Andrew Sullivan. Si tratta di uno dei più noti blogger al mondo, ospitato negli ultimi anni da Tina Brown su The Daily Beast, dove ha scritto e gestito il suo The Daily Dish fino alla decisione presa – o meglio, dichiarata – nei primi giorni di gennaio in un post dall’eloquente titolo «New year, new Dish, New Media (a declaration of independece)»: l’autore ha infatti deciso di mettersi ‘in proprio‘ insieme al suo gruppo di collaboratori e offrire contenuti ai lettori sotto il pagamento di una tariffa di circa 20 dollari all’anno. Sempre il solito blog, senza annunci pubblicitari, ma indipendente e comunque consultabile gratuitamente se si arriva sul sito da link pubblicati sui social network o via feed RSS. Obiettivo fissato: 900 mila dollari, ma già nei primi giorni Sullivan è riuscito a raggiungere quota 400 da più di dodici mila abbonati, tra i quali una sorta di benefattore che ha deciso di contribuire con 10 mila dollari.
Il caso è diventato presto spunto per le più diverse analisi: non sono stati pochi ad apprezzare – come Felix Salmon di Reuters – il gesto di Sullivan e a considerarlo come una possibile via di fuga dalla crisi economica del giornalismo, un «simbolo di speranza» (Ingram su GigaOM) e una strada per far tornare profittevole il lavoro giornalistico. Comunque, un precedente che secondo molti – come Peter Osnos su The Atlantic online – rischia di generare effetti rilevanti nel mondo delle news online. In un modello comunque non facilmente riproducibile: secondo il professore dellaNew York University Jay Rosen, infatti, il successo o meno di un progetto del genere si basa essenzialmente sulla lealtà dei propri lettori, che riconoscono nell’autore un brand distinto del quale fidarsi e al quale tributare un obolo annuale: «Dipende da quanto è forte il rapporto tra te e i tuoi lettori abituali. E Sullivan e i suoi hanno ottime ragioni per scommettere su questo rapporto» – a volte anche ai limiti dell’ossessione, fa notare Jack Shafer. Un legame fiduciario nel quale però l’autore, di certo, parte avvantaggiato rispetto all’abituale figura del blogger.
Non è una novità infatti che Sullivan – comunque un giornalista, certamente non un dilettante – abbia goduto negli anni dell’ospitalità e del brand di testate come Time e The Atlantic, un vantaggio che adesso sta cercando di monetizzare quasi come – sintetizza Poniewozik su Time Magazine – per il comedian Louis C.K. o i Radiohead: attori che «sono stati in grado di capitalizzare i loro sforzi indipendenti dopo esser riusciti a diventare famosi nei modi più convenzionali». Da segnalare anche il punto di vista di Kevin Drum su Mother Jones, secondo il quale se tutti seguissero l’esempio dell’autore britannico ben presto in molti non sarebbero più in grado di permettersi di leggere blog, non potendo abbonarsi. La critica più aspra, comunque, viene dalle pagine di NSFWcorp: in un post dal titolo «If Andrew Sullivan is the future of journalism then journalism is fucked» Mark Ames ripropone l’irrisolto e controverso passato giornalistico dell’autore di The Dish che lo avvicinerebbe a istanze di estrema destra e dichiarazioni discutibili scambiate negli ultimi anni, «thank’s to our collective amnesia», per autonomia e coraggio intellettuale. La proposta di Ames, in una vera e propria perorazione finale, è lasciare che il progetto di Sullivan fallisca violentemente, ora che il suo futuro professionale non dipende più da élite economico-editoriali ma direttamente dai lettori. Il blog, che sarà raggiungibile al vecchio indirizzo andrewsullivan.com, partirà ufficialmente dal primo di febbraio. È possibile contribuire al suo finanziamento qui.
Il caso «Snow Fall», serializzazione e multimedialità
Ancora, due tendenze editoriali del 2013 previste da McKenzie su PandoDaily sono laserializzazione e il ruolo dei contenuti multimediali, riassumibili in uno dei casi editoriali che ha tenuto banco nel dibattito online durante il periodo natalizio: quello di Snow Fall del New York Times, per il quale si è scomodata ancora una volta la definizione di ‘futuro del giornalismo’. Si tratta di un racconto in sei parti di John Branch incentrato sulla storia dei sopravvissuti a una valanga sulle montagne nello stato di Washington nel febbraio del 2012. La particolarità del brano, rispetto a un normale racconto non-fiction corredato dalle voci dei testimoni, sta nella struttura tutta multimediale dell’articolo, pensata non solo a livello testuale ma integrata da contributi audio e video e resa suggestiva da un’impaginazione esteticamente innovativa e altamente scorrevole, adattabile a qualsiasi tipo di strumento di lettura utilizzato.
Un’idea diversa di articolo e di giornalismo online, che ripensa il classico schema di riproposizione solo testuale o solo visivo delle notizie, giungendo a una sorta di ibridazione delle news resa possibile, in tempi recenti, dalle innovazioni in campo grafico e informatico e che trova i suoi precedenti nei già citati casi di ESPN e Pitchfork, nel nuovo portale video HuffPost Live e in siti come TheAtavist. In questo caso, però, si parla di un media fortemente mainstream in grado di investire mesi (sei) e forza lavoro (16 collaboratorti), e che è riuscito a raggiungere, con questo esperimento, una quota di pageview superiore ai 3,5 milioni. Elementi che fanno credere a Derek Thompson, su The Atlantic, che difficilmente si possa parlare di futuro del linguaggio giornalistico in generale: si tratterebbe di una «miracolous mega-multi-media feature», «un trionfo» di giornalismo, design e creatività che merita certamente rispetto, ma un metodo lontano dall’attualità e dalla velocità giornalistica della rete per com’è oggi, dove i lettori giovani e mobile –stando ai dati pubblicati dal Pew Research Center – preferiscono una lettura esteticamente più simile a quella della vecchia stampa cartacea. Più che altro, un «sensazionale regalo per i lettori», conclude Thompson. «Che è già abbastanza».
Da non sottovalutare neanche il fatto che il brano sia stato lanciato inizialmente come ebook pubblicato da New York Times in accordo con Byliner – mossa già anticipata nelle settimane scorse su queste pagine – al costo di 3,53 dollari: un esempio di come la tensione alla serializzazione editoriale citata su PandoDaily possa davvero imporsi come possibile protagonista del mercato e del dibattito per il nuovo anno. Una sorta di ‘fogliettone digitale’ – e si parla di ebook come casa per il longform journalism.
Longform journalism e profitto
La propensione alla produzione testuale dalla consultazione medio-lunga è d’altra parte la settima delle tendenze citate da McKenzie: paradigmatico è il caso di BuzzFeed, che ha assunto un nuovo longform editor e che già aveva abbracciato questa nuova metodologia di lavoro con il famigerato «Can you die from a nightmare?» di Doree Shafir, o ancora i movimenti in tal senso di Tumblr, alla ricerca di un freelance che collabori all’«official storytelling arm» Storyboard, o al successo – anche in termini economici, e a dati e ben noti contesti di crisi – di siti come The Verge e Polygon di Vox Media: «Il 2013 promette di essere un grande anno per i pezzi formato-magazine, anche se questi non si trovano più nei magazine veri e propri». Tutti esperimenti che cercano di emulare il formato editoriale cartaceo di testate come New Yorker e Atlantic Monthly sfruttando la propensione dei lettori su tablet e smartphone a una lettura più impegnativa e approfondita.
Quello della struttura più classica del giornalismo longform non è però il solo ‘sguardo rivolto al passato’ che anima gli uffici direttivi di BuzzFeed: in un’intervista a uno dei blog del Wall Street Journal, il CEO Jonah Peretti ha infatti ammesso di ragionare in termini pubblicitari con la stessa logica innovativa e rivoluzionaria che animava i Mad men della Madison Avenue degli anni ’50-’60, quell’epoca nella quale l’industria pubblicitaria non si accontentava di appiattirsi al mezzo ma puntava a raggiungere il proprio target attraverso storie coinvolgenti e intrattenimento – e emblematico è il caso dell’inserzione di General Electric in home page e la BuzzFeedTimeMachine. Ma non solo: la media company ha annunciato in questi giorni di aver investito altri19,3 milioni di dollari, da sommare a quelli che già nello scorso gennaio ammontavano a 15 milioni e ne hanno fruttato ben 46: un investimento importante per continuare a crescere, puntare sul mobile, sulla sezione video e a proporre il suo ormai noto stile giornalistico, fatto di gallery da centinaia di migliaia di like, giornalismo politico e – appunto – approccio al longform.
Un settore che rischia persino di diventare competitivo e affollato – a patto di trovare il modello giusto: è di questi giorni la notizia della ricapitalizzaizone di Svbtle, una piattaforma di blogging lanciata poco meno di un anno fa dal designer Dustin Curtis che, diversamente dai più classici WordPress, Livejournal o Posterous, accoglie i post di alcune decine di «tech thought leader» – diventati ormai più di duecento – e che ambisce a fare dei contenuti di qualità in modalità longform un business profittevole. Una strada che va nel senso inverso a quella della ‘democraticizzazione del blogging’, ormai più che decennale, che limita il network solo a pochi autori scelti e che proprio su questo ‘muro in entrata‘ vuole trarre profitto. Sebbene lo stesso Curtis, interrogato da TechCrunch e imbeccato da Ingram su PaidContent, ammetta di non aver idea su come riuscire a farcela.
(immagine via NiemanLab)