A Rosarno è tutto come prima
Anzi, pure peggio, racconta la Stampa a tre anni dalla rivolta dei migranti e le violenze tra italiani e lavoratori agricoli stranieri
Più o meno tre anni fa, di questi tempi, a Rosarno era in corso una rivolta. Il pomeriggio del 7 gennaio 2010 tre migranti africani, di ritorno dai campi in cui avevano lavorato alla raccolta degli agrumi per pochi euro l’ora, furono feriti da persone mai identificate con armi ad aria compressa. Seguirono proteste e rivolte da parte dei lavoratori africani, che marciarono a Rosarno scontrandosi con la polizia e con gruppi di italiani abitanti del posto: vetrine danneggiate, cassonetti ribaltati, aggressioni. Seguirono poi spedizioni punitive e “ronde autonome” da parte di gruppi di italiani contro gli stranieri. In due giorni 53 persone restarono ferite: 18 poliziotti, 21 stranieri e 14 italiani. Giuseppe Salvaggiulo, che in quei giorni aveva raccontato i fatti per la Stampa, è tornato a Rosarno e ha trovato una situazione peggiore di quella di tre anni fa, dopo una momentanea fase di tranquillità.
Sbaglia chi dice che a Rosarno, tre anni dopo la rivolta dei migranti, le devastazioni, la controrivolta degli italiani, la caccia all’uomo e infine la deportazione dei neri, tutto è come prima. È peggio.
Gli africani sono di nuovo mille, come allora: arrivati in autunno, ripartiranno in primavera dopo aver raccolto agrumi a 25 euro al giorno, anche se adesso i padroni prediligono il cottimo che aumenta la produttività: un euro a cassetta per i mandarini e 0,50 per le arance, in ogni cassetta 18-20 chili di raccolto.
Le foto delle rivolte e delle proteste del 2010
Nel pieno della stagione lavorano tre-quattro giorni a settimana, a chiamata, versando tre euro al caporale che li carica all’alba sul pullmino. Nei giorni di magra girano in bici nella piana, fanno la spesa ai discount, cucinano riso e ali di pollo in bidoncini arrugginiti, si ubriacano di birra, litigano tra loro.
I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente. Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante. Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro. Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta.