La storia dei Blues Brothers
Vanity Fair racconta come un film che rischiò di sbriciolarsi e costò 10 milioni di troppo divenne un successo leggendario
Il 20 giugno 1980 in circa 600 cinema americani (un terzo del numero consueto per simili uscite) fu proiettato per la prima volta il film The Blues Brothers, che avrebbe fatto i secondi incassi di quel weekend (dopo L’impero colpisce ancora, secondo film della serie di Guerre Stellari) e i decimi di tutto l’anno. Prima di diventare un film “di culto”, come si dice, e il più rappresentativo dell’epica e breve carriera cinematografica di John Belushi, l’attore protagonista che morì di overdose due anni dopo. Lo scorso numero del mensile americano Vanity Fair ha pubblicato una ricostruzione di Ned Zeman sulle vicissitudini della produzione del film, che proprio a causa dei guai con la cocaina di Belushi ebbe molti ritardi e rischiò di saltare in più occasioni (anni fa uscì anche un breve documentario, visibile in coda a questo articolo). Zeman racconta anche come nacquero “i Blues Brothers”, che – come sanno i fans – furono una vera band prima di diventare un film, e pubblicarono in tutto tre dischi: due dal vivo (uno prima e uno dopo il film) e la colonna sonora del film.
John Belushi e Dan Aykroyd, i due protagonisti del film, si erano conosciuti a Toronto nel 1973, nel locale di Dan Aykroyd: che è nato a Ottawa (oggi ha 60 anni) dove aveva coltivato da giovane una passione per la musica suonando in alcune band. Aykroyd aveva 20 anni, Belushi 24, ed erano entrati in contatto tramite un collettivo di comici che frequentavano entrambi e che si muoveva tra Toronto e Chicago, la città di Belushi, appassionato di rock anni Settanta. Aykroyd invece era tutto sul blues, racconta Zeman, e non poteva credere che uno di Chicago non condividesse la sua passione, così la loro amicizia diventò una specie di evangelizzazione, e un innamoramento di due caratteri opposti: Aykroyd meticoloso, cerebrale, maniacale, riflessivo, e Belushi estroverso, “un teenager troppo cresciuto”, disordinato, genio e sregolatezza. E rapidamente, fanatico del blues anche lui. Nel 1975 sia Belushi che Aykroyd entrarono nel cast di Saturday Night Live, popolare e riverita trasmissione comica della tv americana di cui Belushi diventò il maggiore protagonista, popolarissimo per una serie di sketch diventati poi leggendari: l’imitazione di Joe Cocker, il cuoco degli hamburger, il Padrino, il samurai. E a un certo punto i due provarono a farci entrare la loro musica: Aykroyd suonava l’armonica, Belushi un tempo aveva suonato la batteria e gli piaceva cantare. L’idea dei Blues Brothers fu di Aykroyd con la collaborazione di Howard Shore, un suo amico musicista di Toronto che poi comporrà decine di colonne sonore e vincerà tre Oscar per quelle del Signore degli Anelli. I due, con Belushi a fare da frontman e showman, cominciarono a suonare dal vivo in diversi locali, poi l’autore del SNL li fece provare fuori onda per il pubblico in studio, e infine concesse loro uno spazio in onda, ma in uno sketch vestiti da api.
Era il 17 gennaio 1976, e i Blues Brothers arriveranno in tv solo due anni dopo, ospiti di un programma del comico e attore Steve Martin, cantando “Hey bartender” di Floyd Dixon. Nel frattempo, era uscito al cinema Animal House, il film di John Landis che rese ulteriormente popolare Belushi e il suo personaggio Blutarsky (quello della chitarra distrutta, dei tedeschi a Pearl Harbour, di “toga, toga” e molte altre gag divenute familiari in mezzo mondo), e Steve Martin chiese ai Blues Brothers di aprire le nove serate del suo show a Los Angeles. E loro capirono di avere bisogno di una band vera di musicisti: li aiutò Paul Shaffer, musicista nell’orchestra del Saturday Night Live che poi diventerà la popolarissima spalla comica di Dave Letterman nel suo show, indicando loro una serie di professionisti che Belushi sfinì di telefonate pur di ottenerne il consenso.
(Le foto e la storia di John Belushi)
Gli spettacoli a Los Angeles, con Shaffer e i musicisti che diventeranno famosi in tutto il mondo dopo il film, andarono benissimo: erano già quel che sarebbero stati i Blues Brothers per sempre, gli abiti neri e gli occhiali scuri di “Jake e Elwood” (i nomi che si sono dati Belushi e Aykroyd), la valigetta, l’armonica, i numeri di “ballo” e acrobazie di Belushi, le gag comiche. La Atlantic Records fece loro un contratto e alla fine del 1978 pubblicò il disco dal vivo “Briefcase full of blues”: che arrivò al numero uno delle classifiche americane e ottenne due dischi di platino. Belushi compì trent’anni avendo fatto nello stesso anno un film, un disco e un programma tv da primato nelle rispettive classifiche. L’idea del film sui Blues Brothers – di cui erano andati via via costruendo una storia immaginaria – fu sua, ed ebbe subito il consenso di Aykroyd.
Il progetto fu raccolto dalla Universal Pictures e affidato a John Landis, il regista di Animal House: Belushi ricevette 500 mila dollari, Aykroyd 250 mila. Universal fissò che il film fosse chiuso in sei mesi per un costo di 12 milioni di dollari che poi portò a 17,5, e che uscisse ad autunno 1979. La sceneggiatura fu affidata ad Aykroyd, inventore della “storia”, e che non aveva mai scritto una sceneggiatura: ci furono lunghe trattative con la produzione e con Landis sulla sua prima stesura sterminata. Belushi convinse la band a partecipare al film, che a molti di loro sembrava un progetto piuttosto disordinato: Shaffer rinunciò per altri impegni professionali e Belushi lo comunicò con un messaggio seccato agli altri: «Shaffer è fuori, non sarà mai un Blues Brother».
Nel frattempo Belushi aveva girato la sua parte in 1941 di Spielberg e stava lasciando il Saturday Night Live per stanchezza. Ma aveva anche sviluppato un rapporto intensissimo con l’uso delle droghe più diverse, e soprattutto della cocaina. Zeman spiega che non era niente di straordinario nel suo ambiente, salvo che per le quantità e la frequenza notevolissime nel caso di Belushi: i ritardi con la scrittura della sceneggiatura e l’allegra indolenza del cast – di cui Belushi è una specie di capo-gita – fecero cominciare le riprese a Chicago solo a luglio. Il sindaco Jane Byrne accolse il film e Belushi con grande collaborazione, e la sua città ne diventò un protagonista, come disse Aykroyd, che definì anche Belushi “il sindaco non ufficiale di Chicago”. «Era come essere a Roma con Mussolini», commenta Landis.
La compagnia si era insediata in un locale di Chicago, e Dan Aykroyd si era fidanzato con Carrie Fisher, l’attrice che nel film è la fidanzata abbandonata da Belushi all’altare, e che poco dopo tornò insieme al suo precedente compagno, il cantautore Paul Simon. Landis, Belushi e Aykroyd costruivano insieme il film e i personaggi. “Siamo in missione per conto di Dio” è di Landis, “No, signora, siamo musicisti” di Aykroyd, “Quanto per piccola bambina bionda?” è di Belushi. Nessuno aveva chiaro che film stessero facendo, era insieme un musical, una commedia e un film d’azione (che batté il primato di numero di auto distrutte in un film). E la produzione cominciò a preoccuparsi, perché i giorni passavano e i ritardi crescevano, soprattutto a causa delle assenze di Belushi. Faceva tardi la notte, non si trovava, restava a dormire tutto il giorno e otteneva cocaina ovunque (il film stesso aveva in budget delle spese per cocaina, per le riprese notturne). «La usavamo tutti, senza eccessi. Ma John la adorava. Lo teneva come vivo la notte, quella sensazione di superpotere in cui cominci a parlare e parlare e pensi di poter risolvere ogni problema del mondo», racconta Aykroyd. Una notte che lo cercava in una zona di riprese fuori Chicago, vide una finestra illuminata e suonò chiedendo se avevano visto un attore del film e il padrone di casa lo portò da Belushi che dormiva sul divano, dopo avergli “saccheggiato” il frigo.
Intanto la produzione era poco convinta delle vecchie glorie del soul coinvolte nel film – Aretha Franklin, Cab Calloway, Ray Charles, James Brown – e chiese qualcuno di più giovane e contemporaneo. Senza successo, ma il problema era diventato un altro. Dal capo della Universal Lew Wasserman in giù fino ai responsabili sul set le giornate passavano in telefonate agitate e nervose e richieste di spiegazioni. A ottobre le riprese a Chicago (prima di chiuderle a Los Angeles) non erano ancora finite, e il budget aveva sforato di alcuni milioni. Un giorno Landis entrò nella roulotte di Belushi e trovò su un tavolo una montagna di cocaina, «tipo Tony Montana»: la buttò nel gabinetto e poi litigò con Belushi, finì con entrambi che piangevano e si abbracciavano.
Alla fine, dopo che la produzione aveva ipotizzato un’impossibile sostituzione di Belushi con una controfigura o un suo ricovero (che avrebbe allungato troppo i tempi), le riprese si chiusero a Chicago, e a Los Angeles si conclusero più speditamente: Belushi fu affiancato da una sorta di “guardia del corpo-tutore” che si era occupato già del chitarrista degli Eagles Joe Walsh. Quando si stava arrivando alla scena della “Sala grande del Palace Hotel” – girata allo Hollywood Palladium -, quella dei gran numeri sul palco di Belushi, lui si fece prestare uno skateboard da un ragazzino per strada, cadde dallo skateboard e si acciaccò un ginocchio. Lew Wasseman fece rientrare il miglior ortopedico di Los Angeles dal weekend del Ringraziamento, e Belushi fu curato e preparato per la scena, come un atleta.
Il film fu programmato per il 20 giugno 1980, ma molti proprietari delle sale lo giudicarono un film “da neri”, e sostennero che i bianchi non sarebbero andati a vederlo: e che le leggende del soul protagoniste del film erano fuori moda. Così “The Blues Brothers” – il nuovo film con John Belushi preceduto dalla fama del flop di 1941 – uscì in 600 cinema invece dei 1400 soliti per un film di quel budget (che era diventato di 30 milioni, 12 in più del previsto): tagliato di venti minuti rispetto alla lunghezza di due ore e mezza giudicata eccessiva da Wasserman.
A oggi ha incassato 115 milioni di dollari. John Belushi morì il 5 marzo 1982 per un’overdose, a 33 anni.