Buon anno da Colleferro
La storia d'Italia riassunta nel secolo di vita di una cittadina che fu modello industriale e oggi è simbolo di una crisi ambientale, economica e politica
di Filippomaria Pontani
Tra i molti anniversari dell’anno che si chiude, vorrei ricordare il centenario di una cittadina di ventimila abitanti, dapprima concepita come new town attorno a uno stabilimento industriale sul finire del 1912 e poi progressivamente cresciuta fino a divenire comune autonomo nel 1935: intendo Colleferro, in provincia di Roma, sulla direttrice che collega la capitale (distante 51 km) a Cassino, Caserta, Napoli. La mia scelta non è casuale, né dovuta al notevole e raggelante servizio dedicato al centro laziale nell’ultima puntata di Report: si tratta infatti di un luogo cui mi legano da anni importanti ragioni familiari, e di un centro la cui evoluzione reputo rappresentativa di alcuni nodi venuti al pettine nel 2012 in diverse altre parti d’Italia. In certa misura, un compendio del nostro passato recente.
Per chi arriva col treno, Colleferro-Segni-Paliano è una stazione dal nome lungo e molteplice. Niente sottopassaggio, convogli malagevoli e in perenne ritardo (la Roma-Cassino è una delle linee più sovraffollate e disastrate d’Italia), la beffa del TAV Roma-Napoli che sfreccia poco distante, e ovviamente non ferma. Niente, nemmeno i gerani, che ricordi le placide stazioncine asburgiche, ma nell’aria ancora la memoria di una vecchia visita di Francesco Giuseppe in rotta per Napoli (anno di grazia 1900), e quella di Enrico Toti, che qui nel 1908 perse una gamba e pochi anni dopo morì eroicamente sul Carso gettando la stampella proprio contro le truppe del medesimo Cecco Peppe. Sul muro della sala d’aspetto i primi versi dell’Alberello, la poesia improvvisata qui da Gabriele d’Annunzio, mentre insieme all’amante Barbara Leoni aspettava un treno che lo riportasse verso nord.
O tu, ne l’aria grigia, torto e senza / fiori, alberel di Segni Palïano, / che deridendo accenni di lontano / alla inutile nostra impazienza…
(G. d’Annunzio, L’alberello, vv. 1-4)
Sopra tutto, l’ombra altissima e impaziente di uno stabilimento, di torve ciminiere ormai vetuste che torreggiano dinanzi ai binari. Lì sta il segreto di questo posto. Adagiata ai piedi e sulle pendici dei monti Lepini, probabilmente dove sorgeva un tempo la volsca Verrugo ricordata da Diodoro Siculo e da Livio, la zona dell’attuale Colleferro fu scelta giusto cent’anni fa da due senatori del Regno d’Italia, Giovanni Bombrini e Leopoldo Parodi-Delfino, come sito ideale per una nuova fabbrica di esplosivi, materiale la cui utilità si prevedeva in crescita in considerazione dei recenti attriti con la Francia per la questione libica, e in previsione della possibilità di un più ampio conflitto europeo. La fabbrica soppiantò uno stabilimento agricolo aperto nel 1898 per la produzione di barbabietole, poi brevemente riconvertito a distilleria di alcool; il luogo venne considerato propizio in virtù della “protezione” naturale offerta dai monti Lepini, e soprattutto della vicinanza di un corso d’acqua, il Sacco, e di un’importante linea ferroviaria, all’epoca l’unica via ferrata verso Napoli e il Sud.
Accanto alle bombe, a partire dagli anni ’20 a Colleferro (che ancora non si chiamava ufficialmente così: ma i comuni di Segni e Paliano sono entrambi oggettivamente alquanto lontani) si iniziarono a produrre fertilizzanti per l’agricoltura e, in un apposito impianto, calce e cemento. Dal 1940 iniziò l’avventura della chimica, e nel dopoguerra quella del tessile e dell’industria meccanica. Avviati nuovi stabilimenti (segnatamente quello di Castellaccio, verso Paliano), nel 1968 si realizzò la fusione con la SNIA, e con essa una parziale riconversione alla produzione di fibre tessili sintetiche (il delfion), di biancheria e di prodotti chimici come saponi, fertilizzanti, erbicidi: si trattava di una grande azienda guidata da nomi importanti, Mario Schimberni e poi un giovane Cesare Romiti, amministratore delegato il futuro spending reviewer nazionale Enrico Bondi. Infine si aggiunse il comparto ferroviario.
Ma la vocazione pesante dell’industria colleferrina non venne mai meno nei decenni, anche dopo che le polveri e il tritolo lì prodotti ebbero attoscato gli altipiani del Carso, e dopo che altre bombe e altre munizioni furono esplose in malam partem nel corso della II guerra mondiale. Qui si producevano ordigni d’ogni tipo, mine antiuomo, cluster bombs, tutto anche per esportazione nei teatri di guerra più attivi, anzitutto l’Africa e il Medio Oriente. Tale vocazione è giunta fino a tempi a noi vicini, se è vero che ancora alcune delle bombe sganciate nelle recenti guerre d’Iraq e di Libia (da parte beninteso degli indigeni, non degli Occidentali) recavano il marchio della BPD (dalle iniziali dei fondatori) o della Simmel che ne ha preso il posto, e se è vero che i fondati sospetti circa la produzione di armi chimiche e non convenzionali hanno spinto Gianluca Di Feo a dedicare proprio a Colleferro diverse pagine del suo libro Veleni di Stato (BUR, Milano 2009).
Sin dagli inizi, un agglomerato cresciuto impetuosamente attorno alla fabbrica degli esplosivi non poteva non diventare un fiore all’occhiello della Patria, e dunque, in procedere di tempo, del sopraggiunto regime fascista: il sinecismo di operai specializzati dal Piemonte, dalla Toscana, dalle Marche e da altre regioni dell'”Altitalia”, favorì – qui come nell’agro Pontino – la creazione di una classe lavoratrice meticcia, dove cognomi diversi si mescolavano a quelli più tipici nella regione: nel cimitero sulla collina sarà facile distinguere gli uni dagli altri, e riconoscere come nel corso degli anni gli uni e gli altri si siano sovrapposti nelle lapidi di tante donne, casalinghe, maestre, operaie. Ma la retorica su Colleferro presidio della patria non si limitò alle medaglie e alle parole (“in labore virtus”, recita il motto cittadino): si tradusse anzi in un piano urbanistico tra i più interessanti del Centroitalia, nonostante le esigue dimensioni. Piazza Italia, il Municipio e gli altri edifici pubblici che vi sorgono, financo la retrostante chiesa di Santa Barbara, edificata nel 1937, sono insigni esempi di architettura fascista; ma anche le case degli operai realizzate attorno a Piazza Mazzini da Amintore Fanfani nel Dopoguerra – posteriormente cioè alle tremende distruzioni inferte dai bombardamenti alleati – seguirono in realtà le linee tracciate negli anni ’30.
Si è parlato molto, negli ultimi mesi della vertenza ILVA, della chiesa del Gesù Divin Lavoratore nel quartiere Tamburi a Taranto, e della veemente penetrazione, nel suo apparato decorativo, di immagini industriali e lavorative intimamente saldate alla sfera religiosa (del resto, lì come a Colleferro, il luogo di culto è stato promosso o restaurato dai detentori dell’impianto). Bisognerebbe almeno tener presente che, anche a questo livello simbolico, non si tratta di una combinazione isolata: sull’altare di Santa Barbara, a Colleferro, si ammira un gigantesco mosaico (opera di Marino Mazzacurati, e sponsorizzato dalla vedova Parodi-Delfino nel 1967) in cui la dedicataria della parrocchia, torreggiante in un lampo di luce, protegge ai suoi piedi precisamente la fabbrica degli esplosivi e quella di Castellaccio, raffigurate con precisione quasi nei dettagli. Così come preciso e dettagliato è il ciclo della chimica affrescato sul muro della piazza prospiciente la facciata della chiesa – come a sancire la conquista definitiva dell’espace public.
Sono quelle stesse fabbriche che pretesero negli anni dalla comunità dei fedeli e dei cittadini un severo tributo di sangue: perfino in un’epoca in cui di morti bianche si parlava poco e gli incidenti in fabbrica facevano poca notizia, casi come la strage del 29 gennaio 1938 (tra un mese saranno 75 anni), in cui l’esplosione di un deposito di tritolo dilaniò i corpi di 60 operai e ne mutilò altre centinaia, rimasero scolpiti nella memoria collettiva di un’Italia ormai quasi pronta ad avviare, con quel medesimo tritolo, disastri financo più sanguinosi. Colpisce, nel leggere le cronache di quei tragici eventi, pieni di visite del re, di commemorazioni e garanzie promosse da Mussolini in persona, il diffuso sentimento di rassegnazione che pervadeva i colleghi e i familiari dei defunti, misto al permanere di una sentita gratitudine verso chi (la famiglia degli industriali Parodi-Delfino) aveva comunque il merito di sfamare così tante famiglie. La medesima devozione al “padrone” spiega come mai nelle storie di Colleferro (per es. l’utile e clericale U. Mazzocchi, Colleferro dal borgo alla città industriale, Roma, Gremese 1980) la strage del ’38 richiami quasi meno lacrime e meno dolore dell’incidente aereo in cui avevano perso la vita, solo due anni prima, i due giovani e robusti figli maschi di Leopoldo Parodi-Delfino, fulgidi “esempi alla gioventù del Littorio” – come recita la commovente lapide murata (e recentemente restaurata, con filologico reintegro di certe parole che una circospetta damnatio memoriae aveva scalpellato) nella navata sinistra della medesima chiesa di Santa Barbara, poco lontano dal mosaico appena ricordato.
Ma è un dato di fatto che a Colleferro, in età fascista, i “padroni”, i Parodi-Delfino, avevano effettivamente messo in pratica una forma di capitalismo paternalistico attento al sociale, che contemplava, accanto allo sviluppo della fabbrica, il finanziamento di molte opere indispensabili, dai bagni pubblici ai giardini, dalle strade alle scuole, dal mercato alla farmacia. Realtà orientate, beninteso, sia nell’intento di coagulare il consenso, sia a fini più immediatamente pratici – la scuola creata da Parodi-Delfino, e ancor oggi esistente, fu un avviamento professionale destinato a formare i futuri operai. Ma realtà concrete, di lungo periodo, dotate di una forma di visione del futuro. Quando poi, nel secondo dopoguerra, all’industria bellica italiana venne lasciato un margine di espansione più esiguo, entrò in campo lo Stato, sia con ulteriori interventi infrastrutturali della mano pubblica, sia tramite una politica industriale che, come detto, inglobò la BPD nella SNIA, e le affiancò un ramo industriale legato all’aeronautica e all’aviazione spaziale, rendendo Colleferro un centro di produzione fondamentale per quel settore (ne fa fede la spina di colaggio che orgogliosamente troneggia su una grande rotonda in centro città, fedele riproduzione di quella innestata negli anni ’80 nel missile “Ariane”, la sfida dell’Europa a USA e URSS per la conquista dello spazio). Negli anni delle lotte sindacali, gli scioperi e le manifestazioni di Colleferro dettero una spinta al miglioramento delle condizioni dei lavoratori; lungo tutti gli anni del boom, fu prezioso l’interessamento costante dell’uomo più potente d’Italia, Giulio Andreotti, che aveva in queste terre un proprio feudo elettorale.
«Colleferro è una piccola città operaia modernista, folta di antenne radio».
(G. Piovene, Viaggio in Italia)
Où en sommes-nous aujourd’hui? La parabola del luogo, saggiata al suo punto odierno, offre un che di sconfortante: in un’area sempre più provata da dismissioni e chiusure (la Videocon di Anagni, ma la stessa FIAT di Cassino), a Colleferro, se la SNIA è in crisi da anni (la Caffaro chimica, che era del gruppo, ha chiuso i battenti già nel 2005), per converso l’azienda ferroviaria, rilevata dalla francese Alstom nel 2000, ha abbandonato il campo nel 2011 dopo una lunghissima vertenza (e dopo un clamoroso tentativo di sequestro dei dirigenti in fabbrica), lasciando a casa ben 150 operai, alcuni dei quali oggi s’inventano baristi o ristoratori in improbabili avventure. La fabbrica dell’Italcementi, che gli abitanti dello Scalo ricordano all’origine di sgradevoli e onnipresenti polverine, è stata chiusa in autunno per sospetto di emissioni inquinanti, e riaperta poche settimane fa in attesa di ulteriori accertamenti. L’AVIO (Fiat Aviazione, che dal ’90 aveva rilevato il ramo aeronautico e aerospaziale, salvo passare poi ulteriormente di mano negli ultimi anni) non disegna più i motori dell’Ariane e produce motori per bombardieri americani, ma almeno dà lavoro. A pochi passi, tuttavia, l’ARC, che produceva airbag, si è già spostata in Cina e Messico, mentre l’omologa impresa olandese KSS dimagrisce gli organici sino a sembrare ogni giorno di più sull’orlo della chiusura: i sindacati e i politici denunciano anche qui l’intenzione di delocalizzare in Romania.
E così, quella che era una cittadina modello del nostro sviluppo industriale, salutata da Paolo VI nel 1966 con la solenne apostrofe “Viva Colleferro operaia!”, perde un colpo dietro l’altro, e sembra affidarsi oggi a tutt’altre direzioni: conto, per restare al solo, piccolissimo, centro del paese, bugigattoli di “Compro Oro” al cosiddetto Colosseo, a Piazzale Aldo Moro, a corso F. Turati; conto anche, sempre nel cuore del paese, una sala da gioco “Planetwin” a via Consolare Latina, una “Royal Jackpot” poco dietro P. Aldo Moro, una “The King Sala Slot” a Piazza Mazzini, per non dire dei punti-scommesse a Piazza Italia (verso viale B. Buozzi) e nel “Bar Impero”, all’angolo opposto della piazza che sembra uscita da un quadro di De Chirico. Una densità inquietante?
Si può forse sommessamente ipotizzare che, venuto meno per limiti di età il patronage politico del Gobbo, le istituzioni locali non abbiano saputo ricostruire un tessuto industriale degno di questo nome, lasciando la popolazione nel buio. Forse non ci è riuscito nemmeno Silvano Moffa, vecchio missino a lungo sindaco, prima che decidesse di rispolverare la foto dei calciatori del “Secolo d’Italia” e di finire in Parlamento, nella legislatura ormai morente, a far giravolte fra Fini, Berlusconi e Scilipoti. Forse non ci sta riuscendo nemmeno il suo fido e volonteroso successore (ed ex-assessore) Mario Cacciotti, già operaio egli stesso, rieletto l’anno scorso anche grazie al solito harakiri del centrosinistra. E chi si stupisce del come mai a pochi chilometri da qui, nella vetusta Anagni, prosperi ad ogni livello, con le sue ricadute su tutto il circondario, il cosiddetto “sistema-Fiorito“, non ha evidentemente chiara la dimensione del sentimento di abbandono in cui versa buona parte di queste terre.
“Oh mondo! Come sono infide le tue vicende”
(W. Shakespeare, Coriolano, atto IV sc. 4)
Ma se la politica fatica a dare risposte, non fatica solo sul piano – pur prioritario – del lavoro. L’eredità del movimento industriale degli anni del boom è infatti penetrata in profondità nelle viscere di questa terra, ed è – si teme – destinata a non uscirne per i prossimi decenni. Non è dato sapere in che stato il territorio di Colleferro, e il suo fiume Tolerus (l’odierno Sacco), si siano presentati dinanzi a Coriolano, che esattamente 2500 anni fa (488 a.C.) li solcò vittorioso nella sua marcia verso Roma alla guida delle truppe volsche, alla ricerca di un’impossibile vendetta. Ma come tutti in zona sanno da anni, e come ha documentato il servizio di “Report”, nel 2005 è venuto in chiaro, con incredibile ritardo (le prime segnalazioni erano del 1990) il drammatico stato di inquinamento del fiume Sacco. Un inquinamento iniziato in antico (A. Colajacomo, Lineamenti per una storia di Colleferro, 1967, già menziona innocentemente in una nota lo sversamento delle acque di risulta della chimica BPD nel letto del Sacco, che peraltro già all’epoca era “sempre più spesso in secca”), ma dovuto nello specifico agli scarti della lavorazione di un fertilizzante, il lindano, abusivamente stoccati in malchiusi fusti nei pressi delle sponde del torrente, e ormai reperibili sotto forma di beta-esaclorocicloetano nel latte (sequestrato), nelle mucche (abbattute), e negli uomini (ancora troppo poco esaminati, nonostante i lodevoli sforzi dell’ASL Roma G, da pochi anni trasferitasi, per ironia della sorte, in una coloratissima palazzina proprio ai confini dell’antico stabilimento). Né si pensi che l’eliminazione non autorizzata di rifiuti tossici e pericolosi sia una novità recente: basti leggere le allarmanti motivazioni con cui nel 1993 il tribunale di Velletri procedeva all’assoluzione di molti dei dirigenti SNIA per questi ed altri reati (fra le altre, duole dirlo, compare anche la prescrizione). Per quante bonifiche si possano intraprendere, il Sacco, che è la risorsa idrica fondamentale della zona, dovrà scontare ancora per decenni i veleni e i metalli pesanti delle imprese che se ne sono servite; e mia nonna, che abita lì, continuerà a vedere periodicamente affisse sui muri allarmanti ordinanze sulla pericolosità dell’acqua del rubinetto, poi prontamente ritrattate alla luce di nuovi e più rassicuranti esami.
Ma la morbilità, il guaio sanitario, l’aumento dei tumori non sono solo un fatto di acqua, e non riguardano solo i lavoratori degli stabilimenti, sulle cui condizioni deplorevoli portava l’attenzione un documentato rapporto già nel 1977 – una lettura istruttiva per chi voglia capire su cosa si fondava il nostro boom economico (già, boom, un’onomatopea sinistra in questo contesto di munizioni). Più insidioso ed erga omnes, l’inquinamento dell’aria emerge dalle emissioni delle ciminiere delle fabbriche, ben visibili anche a distanza e perfino dalla stazione su cui si è aperto il nostro viaggio; ma emerge anche dai pennacchi degli inceneritori, ben due, che campeggiano a poca distanza dalle case – chi argomenta che i termovalorizzatori siano “puliti” potrebbe riflettere al motivo per cui alcuni valori delle loro emissioni sono stati truccati fino al 2009 da chi doveva controllarli, o chiedersi come mai tutto il sistema della gestione dei rifiuti del Lazio meridionale sia sfociato in un gigantesco scandalo da centinaia di milioni di euro che ha il suo epicentro proprio nel consorzio Gaia di Colleferro. Per non parlare dell’enorme discarica di Colle Fagiolara, a un paio di chilometri dal paese, o del progetto di un nuovo impianto di TMB a Castellaccio, o dei piani recenti per smaltire qui una parte importante dei rifiuti di Roma che non si sa più dove mettere; per non parlare del potenziale ancora latente in ciò che rimane ancora ignoto dell’industria chimica, bellica e cementizia. Non si tratta di vaghi timori: lo studio epidemiologico dell’Eras (Epidemiologica rifiuti ambiente salute nel Lazio), pubblicato il 31 luglio scorso, ha iniziato a mostrare la correlazione tra l’inquinamento atmosferico e i disturbi respiratori in tutta la popolazione (anzitutto quella infantile) di Colleferro; ma senz’altro, qui come a Taranto, molto altro vi sarà da appurare.
Come spesso avviene, un fattore determinante nell’affiorare dei disastri ambientali è rappresentato dall’opera di indagine e informazione compiuta da un’agguerrita associazione locale: nella fattispecie, la Re.Tu.Va.Sa. è stata capace non solo di levare vibranti proteste contro il degrado, l’incuria e gli scandali, ma anche di elaborare una piattaforma programmatica di prim’ordine, fondata su una diversa concezione della qualità della vita e delle priorità dello sviluppo. Promuovere e seguire complessi processi di bonifica, rilanciare la vocazione agricola del territorio ancora non contaminato, credere nella green economy e nello sviluppo sostenibile, affrontare il nodo irrisolto dell’immigrazione e quello del trasporto pubblico oggi drammaticamente insufficiente, sono sfide di non poco momento, in cui sempre più spesso le amministrazioni finiscono per essere ostacoli anziché alleati, e dunque i cittadini provano a organizzarsi fra loro.
“Selvaggia, e fera voglia, e rio pensiero, / ch’hai rotto omai nel mezzo ogni mia speme”
(Giusto de’ Conti, O man leggiadra, vv. 9-10)
Malconcio spettatore di questo declino, dall’alto di un basso colle che contempla ominosamente il nuovo cimitero, il vetusto castello di Colleferro, posseduto fino al 1575 dalla famiglia dei Conti di Segni e di Valmontone (la stessa cui appartenne il famoso poeta quattrocentesco Giusto de’ Conti), è oggi esso stesso minacciato. Se infatti è scampato alla trista sorte del limitrofo castello di Piombinara (dìruto come lui a séguito delle distruzioni operate dai Colonna nel 1431, ma poi fatto definitivamente saltare con la dinamite nel 1936 dalla summentovata ditta BPD per agevolare il transito di una linea elettrica ad alta tensione), oggi rischia seriamente di vedersi soffocato da una colata di cemento, che è stata autorizzata dal Comune già nel 2009 e contempla la costruzione di palazzine e garages su tutta la collina, nonché la trasformazione del Castello medesimo in albergo. Una speculazione edilizia propiziata dal vertiginoso guadagno che ne trarrebbe la società costruttrice, a prescindere da qualunque considerazione per l’ambiente, la storia, le necessità della comunità.
Il futuro industriale del Paese, la tutela dell’ambiente, la sicurezza sul lavoro, la trasparenza della politica, la promozione del trasporto locale, la scommessa sulla pace, la lotta contro la rassegnazione dei cittadini. Tutti questi interrogativi, che sono poi gli interrogativi posti dagli ultimi cent’anni del nostro Paese, s’incrociano oggi nell’incerto destino di un villaggio di ventimila anime a 50 chilometri da Roma. Non so se sarà mai possibile restituire ai giovani d’oggi quel senso di ingenua fierezza e fiducia che provavo da piccolo, ignaro di tutto, nel guardare le ciminiere della fabbrica dove lavorava mia nonna, o le rotaie dei treni che mio nonno instradava. Sarebbe già molto se le architetture di quel villaggio, i pascoli all’intorno e le ciminiere che lo punteggiano, le storie di tante persone, venissero integrate in un senso comunitario che paiono avere smarrito, tornassero a vivere una storia finalmente condivisa. Sarebbe già molto, insomma, se si trovasse il modo di smentire l’impietosa analisi (retrospettiva e profetica) che della realtà di questa terra ha compiuto, post res perditas, una Colleferrina ben nota alla storia d’Italia: Barbara Balzerani (Compagna luna, Feltrinelli 1998; La sirena delle cinque, 2003).
(Foto Mauro Scrobogna / LaPresse)