La storia della Penguin Café Orchestra

La racconta Marco Imarisio sulla Lettura, a 15 anni dalla morte del fondatore Simon Jeffes

L’11 dicembre del 1997 morì a 48 anni Simon Jeffes, fondatore e principale esponente della Penguin Cafè Orchestra. Marco Imarisio racconta sulla Lettura, il domenicale del Corriere della Sera, la storia di Jeffes e del suo gruppo musicale, che componeva «musica “strana” che non ammetteva etichette se non quella di una colonna sonora intima, riservata a quei momenti da ora incerta, non ancora buio ma con il sole già tramontato, quando allegria e malinconia si impastano».

Era bello avere un segreto e serbarne il desiderio. Era giusto non sapere, e così rimanere nel vago, nel non detto. Quel piccolo mistero sembrava anche l’unico modo possibile per far vivere il ricordo di una musica «strana» che non ammetteva etichette se non quella di una colonna sonora intima, riservata a quei momenti da ora incerta, non ancora buio ma con il sole già tramontato, quando allegria e malinconia si impastano. Per elicotteristi, per immaginare isole lontane e fragranze dalle colonie, per qualcuno che ami e sta andando via, ma non importa, o per la piccola sorpresa di un harmonium ritrovato.

Forse era esistito un Penguin Cafe anche in una città vicina, come Bologna. Doveva essere un posto speciale, come tutti i luoghi di fantasia, anche perché era legato agli ultimi anni felici dell’inventore di questa utopia musicale. L’avevano messo sulla copertina dell’antologia uscita dopo la sua morte, e appariva chiara la voglia di ricordare una estate ormai lontana, i concerti sotto le stelle d’argento di Bologna. Poi, tanti anni dopo, è arrivato Internet, con il bisogno ossessivo del dove e del quando. Non richiesto, è saltato fuori un indirizzo, piazza San Giovanni in Monte, un portone di metallo e sopra l’insegna con la testa del pinguino. Non c’è più, ma l’assenza è un dettaglio da nulla. Noi che l’abbiamo cercato tanto, in ogni città, in ogni continente, sappiamo bene che da qualche parte, in qualche luogo, c’è un Caffè pinguino. E seduto a un tavolo che immaginiamo di legno chiaro c’è Simon Jeffes, un eccentrico viaggiatore inglese. Ha l’aria assorta, si vede che sta inseguendo pensieri lontani.

«Io sono il proprietario del Penguin Cafe, e vi dirò parole a caso…». La storia che andiamo a raccontare aggrappandoci alla sua data più infausta — 11 dicembre 1997, quindici anni fa — non può che cominciare con un sogno. È il 1972, il giovane Simon delira nel letto di un hotel bretone. Lo stato febbrile è il cascame di una cena con pesce avariato. Nell’allucinazione che gli fa visita, vede dall’alto una specie di caserma, con stanze abitate da persone silenti. Tutto è sorvegliato, tutto è grigio. Orwell, insomma. All’improvviso risuona una filastrocca infantile che comincia con la frase di cui sopra, e prosegue come un inno alla spontaneità, alla grazia della sorpresa e dell’inatteso nelle nostre vite ordinate. In quel momento nasce l’idea del Penguin Cafe, un luogo virtuale, ma caldo, accogliente, dove mettere il nostro inconscio al riparo dalle paure del presente.

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