Tre esempi da non seguire
Argentina, Ecuador e Islanda: perché sbaglia chi dice che dovremmo fare come questi tre paesi per risolvere la crisi, spiegato semplice
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
Giovedì, all’università Bicocca di Milano, ha tenuto un discorso Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, un paese che nel 2008 ha fatto default, o più tecnicamente ha ristrutturato il suo debito. Il discorso di Correa è stato ripreso diverse volte negli ultimi giorni. Secondo molti, come l’Argentina e l’Islanda, l’Ecuador ci insegnerebbe che il modo migliore per uscire dalla crisi del debito è anche il più semplice: non pagarlo.
Si tratta di una lezione profondamente discutibile: Argentina, Islanda ed Ecuador sono paesi molto diversi l’uno dall’altro e molto diversi dal nostro. Le soluzioni che hanno adottato sono diverse: alcune fin’ora hanno funzionato, ma sarebbero inapplicabili nel nostro paese. Altre si sono rivelate disastrose anche per chi per primo le ha introdotte. Vediamo cos’è accaduto in ciascuno di questi paesi e perché prendere ispirazione dalle loro ricette economiche non sembra di buon senso.
Ecuador
«Se il debito è illegittimo non si paga», ha detto giovedì a Milano il presidente Correa, riassumendo in poche parole la sua decisione nel 2008 di ristrutturare il debito pubblico del suo paese. Il default dell’Ecuador, infatti, è stato un caso particolare: le casse del governo avevano denaro più che sufficiente a ripagare gli interessi sul debito. La scelta di non ripagarlo fu politica: una commissione governativa stabilì nel 2008 che 3,5 miliardi di dollari di bond erano stati emessi in maniera irregolare. Correa aveva sostenuto questa tesi durante la campagna elettorale per la sua prima rielezione nel 2007 e tra il dicembre del 2008 e il marzo 2009 la mise in pratica.
Contrariamente a quanto si pensò all’epoca, non fu un’operazione così traumatica. In genere, quando un paese decide di non ripagare un debito senza mettersi d’accordo con i creditori, questi ultimi si mettono a caccia delle proprietà del paese all’estero. Intentano cause in giro per il mondo e spesso ottengono il sequestro di capitali, navi o altri asset come risarcimento per la loro perdita. All’Ecuador questo è accaduto in maniera molto limitata, perché a pochi mesi dal default il governo di Correa ricomprò dai suoi creditori il 91% dei titoli di stato su cui aveva fatto default a un terzo del loro valore originale.
Non solo questa operazione, il cosiddetto buyback, andò molto bene, ma nel 2011 l’Ecuador è cresciuto quasi del 7,8% e per quest’anno è prevista una crescita intorno al 4%. Fitch, una delle tre grandi agenzie di rating che, secondo molti, dovrebbero essere le nemiche giurate dei paesi che adottano politiche economiche poco ortodosse, ha cambiato le prospettive sul rating del paese da stabili a positive – l’Ecuador è comunque ancora a 6 livelli dall’investment grade, il rating minimo per essere considerati affidabili.
Per capire come tutto questo sia stato possibile e perché l’esempio dell’Ecuador non sia un esempio che si può imitare, bisogna dare un’occhiata al paese un po’ più ravvicinata. L’Ecuador ha circa 15 milioni di abitanti e una popolazione molto giovane. Il suo Prodotto interno lordo è di 127 miliardi di dollari, meno della metà del PIL della Grecia e meno di un decimo di quello italiano. Oggi il suo debito pubblico è di circa 25 miliardi di dollari (un centesimo del debito pubblico italiano) e nel 2008 fece default soltanto su 3,5 miliardi di debito.
Ma c’è un fatto ancora più importante che distingue l’Ecuador non solo dall’Argentina e dall’Islanda, ma anche dall’Italia: circa metà della sua economia è basata sulle esportazioni di petrolio. Esportare petrolio è ancora più importante di quello che si può pensare: il primo problema di un paese che fa default è che avrà difficoltà a trovare paesi disposti ad acquistare nuovi titoli di stato. Non avere denaro in prestito significa avere meno denaro da investire in infrastrutture, stipendi, riforme, pensioni e tutto il resto della spesa pubblica.
L’Ecuador però aveva il petrolio e all’indomani del default la Cina si fece avanti, offrendo immediatamente al paese un prestito da un miliardo di dollari in cambio di accordi petroliferi. Il tasso di interesse chiesto dai cinesi, 7,5%, era tre volte più alto di quello dei prestiti offerti dal FMI, ma ottenere denaro a un tasso molto alto era certamente una situazione migliore che non avere denaro affatto. In questi ultimi anni il debito pubblico dell’Ecuador nei confronti della Cina è arrivato a 7,3 miliardi di dollari.
Islanda
L’Islanda è stata spesso indicata come un modello da seguire non solo per aver votato e scritto una nuova costituzione con l’aiuto di internet, ma anche perché è molto diffusa la leggenda che l’Islanda abbia deciso di non ripagare il suo debito pubblico. Oggi la crisi in Islanda sembra essere passata e l’economia è tornata a crescere. Se a questo si unisce che i politici ritenuti responsabili della crisi sono finiti sotto processo, l’Islanda appare come il miglior esempio da seguire per l’Italia.
Le cose però non stanno esattamente così. Il primo motivo è che è piuttosto difficile immaginare due paesi più distanti tra loro: l’Italia con più di 60 milioni di abitanti e l’Islanda, invece, con una popolazione più o meno pari a quella di Verona, circa 300 mila abitanti. Con un termine tecnico, l’Islanda è un paese non “sistemico”, che può compiere scelte anche molto azzardate senza che queste abbiano gravi conseguenze di portata planetaria. Ma non c’è solo questo: anche la ricostruzione della crisi in Islanda che viene diffusa più spesso è profondamente scorretta.
La crisi in Islanda cominciò nel 2008 quando, appena esplosa la crisi di Lehman Brothers, le uniche tre banche del paese fallirono una dopo l’altra e furono nazionalizzate. I debiti della banche divennero parte del debito pubblico che di conseguenza aumentò di più dell’80% in poche settimane. Questo choc causò un crollo nel valore della moneta nazionale e una gravissima recessione.
Subito dopo l’inizio della crisi, nell’ottobre del 2008, l’Islanda chiese l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, che aprì immediatamente una linea di credito all’Islanda, prestando al paese 2 miliardi di dollari. Per concedere quei prestiti, l’FMI chiese l’adozione di tutta una serie di misure a cui non solo l’Islanda si adeguò, ma che portò a termine così bene che riuscì a restituire il prestito con nove mesi di anticipo, divenendo una specie di allieva modello del Fondo Monetario Internazionale.
La leggenda del virtuoso default dell’Islanda deriva da un episodio che in realtà sembrerebbe molto più degno di biasimo che di merito. Una delle tre banche nazionalizzate dal governo, la Landsbanki, aveva tra i suoi fondi anche un fondo pensione chiamato Icesave. Con il collasso della Landsbanki cominciò un caso diplomatico e legale estremamente complicato che non si è ancora concluso. In sostanza: all’interno di Icesave avevano depositato i contributi per la loro pensione più di 120 mila cittadini inglesi ed olandesi per un totale di 1,7 miliardi di depositi.
La disputa cominciò per stabilire quanti di quei soldi il governo islandese, che ora controllava Icesave, avrebbe dovuto ridare ai futuri pensionati inglesi e olandesi. Gli accordi ottenuti nel 2010 e 2011 tra i tre governi per restituire il denaro, in diverse forme e tutte molto complicate, furono tutti bocciati nel corso di due referendum, uno nel 2010 e l’altro nel 2011.
Argentina
Quello dell’Argentina è un caso diverso. Ecuador e Islanda sono paesi che hanno compiuto scelte economiche poco ortodosse che per motivi particolari si sono finora rivelate non troppo dannose, oppure hanno fatto scelte molto ortodosse, anche se poi sul loro comportamento si è sviluppata una leggenda parecchio lontana dalla realtà. Invece l’Argentina, dopo il default, ha compiuto scelte economiche azzardate che si stanno rivelando devastanti per la sua economia.
(L’Argentina è di nuovo vicina al default?)
Quello che il governo argentino ha fatto negli ultimi anni è stato in sostanza un tentativo di comprare il consenso elettorale dei suoi cittadini aumentando la spesa pubblica, soprattutto sotto forma di massicci trasferimenti di denaro alla popolazione, cioè agevolazioni, sussidi e stipendi pubblici. Dal default del 2001 -che a differenza di quello dell’Ecuador fu causato dal fatto che in cassa non c’erano più soldi- l’Argentina è considerata un paese inaffidabile e quindi non può ricorrere al mercato per finanziare la sua spesa pubblica.
Le soluzioni trovate dai vari governi guidati dal presidente Cristina Kirchner sono state varie e tutte, potenzialmente, molto pericolose. Uno dei primi gesti fu quello di mettere sotto controllo governativo la Banca Centrale. Da ormai 40 anni è una prassi diffusa in quasi tutti i paesi occidentali che le banche centrali restino indipendenti dal potere esecutivo. Se il potere di stampare denaro finisce nelle mani dell’esecutivo, infatti, c’è il rischio che la banca centrale venga usata per stampare denaro in modo da finanziarie senza limite le politiche dei governi: era quello che accadeva in Italia fino agli anni ’80 e che causava la famosa inflazione a due cifre.
L’inflazione è proprio uno dei problemi più gravi dell’Argentina. Secondo fonti indipendenti l’inflazione argentina è ormai a più del 25%, mentre secondo il governo è ferma solo al 9%. In molti, tra giornali e analisti finanziari, hanno dichiarato da tempo di non utilizzare più i dati ufficiali del governo, ritenendoli truccati.
Per scampare all’inflazione gli argentini hanno cercato di acquistare monete stabili, in particolare dollari americani, finché i loro pesos valgono ancora qualcosa. Per evitare questo fenomeno, che fa scendere ancora di più il valore della moneta argentina, il governo ha messo in piedi una serie di ostacoli e divieti per impedire di fatto che i pesos vengano cambiati in dollari: ad esempio un argentino che oggi si trovasse in un paese estero non potrebbe prelevare dollari da un bancomat.
A queste limitazioni si aggiungono altre misure poco ortodosse per limitare le importazioni, un altro di quei fenomeni che, se superiori alle esportazioni, fanno scendere il valore di una moneta. Per legge, chiunque voglia importare in Argentina deve esportare merci per un valore pari a quelle che vuole importare. Questo fenomeno ha dato origine a fenomeni bizzarri, come venditori di auto costretti a esportare noccioline per poter far arrivare auto straniere nelle loro concessionarie.
Questo insieme di cause, insieme a una diminuzione del prezzo delle materie prime di cui l’Argentina è un grande esportatore, unito alla crisi globale, sta facendo crollare il gettito fiscale del governo argentino, che non ha a disposizione il mercato del debito per fronteggiare i buchi nel bilancio. Come se non bastasse, pur di cercare di tenere l’economia in moto, la Banca Centrale sta abbassando i requisiti patrimoniali richiesti alle banche. In altre parole le banche potranno prestare più soldi, tenendo in minor conto i rischi che questi prestiti comportano e detenendo quantità minori di capitale di emergenza nelle loro casse.