IKEA e le scuse per i prigionieri politici
Un'indagine interna ha confermato che a partire dagli anni Sessanta la società sfruttò quelli condannati ai lavori forzati in Germania dell'Est e Polonia
IKEA si è scusata ufficialmente per aver sfruttato negli anni Sessanta manodopera composta da prigionieri politici tedeschi condannati ai lavori forzati nella Germania dell’Est e in Polonia. L’ammissione di colpevolezza è arrivata dopo un’indagine interna commissionata dalla stessa IKEA alla società di revisione Ernst & Young, in seguito a un’inchiesta della televisione pubblica svedese che aveva sollevato il caso. Subito dopo la messa in onda dell’inchiesta, IKEA, che a partire dagli anni Sessanta aveva esternalizzato la produzione in paesi dell’ex blocco sovietico come la Polonia e la Germania dell’Est, aveva risposto di non essere a conoscenza dell’utilizzo di prigionieri politici nelle fabbriche dei suoi fornitori. Durante l’indagine interna sono stati messi a confronto 80 mila documenti e verbali della Stasi (l’organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania Est) con quelli degli archivi privati di IKEA, quasi 20 mila pagine, e sono state raccolte le testimonianze di più di novanta persone.
Rainer Wagner, presidente dell’associazione che riunisce le vittime del comunismo dell’ex Germania orientale, aveva dichiarato prima dell’inchiesta che IKEA era solo una delle tante aziende che avevano beneficiato dei lavori forzati tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Oggi si è detto molto soddisfatto dell’esito dell’inchiesta e ha auspicato che IKEA e le altre aziende decidano di risarcire gli ex prigionieri politici per i danni fisici e psicologici subiti. Jeanette Skjelmose, dirigente di IKEA, ha espresso “profondo rammarico per quanto avvenuto” e ha specificato che “all’epoca non avevamo ancora il sistema di controllo che abbiamo oggi”, uno tra i più rigorosi, insieme al lavoro di numerosi ispettori esterni.