Intorno a Romney
Luoghi, storie e persone dalla campagna elettorale dei repubblicani in Ohio, raccontati da Andrea Marinelli che l'ha seguita passando da un divano all'altro
di Andrea Marinelli
Andrea Marinelli è un giornalista freelance che quest’anno ha seguito le primarie repubblicane negli Stati Uniti finanziando i suoi viaggi attraverso una piattaforma di crowdfunding, cioè raccogliendo donazioni in rete, e dormendo a casa di sconosciuti trovati su Couchsurfing. Nel frattempo raccontava quello che succedeva su un blog che quindi era composto per metà da notizie politiche e per l’altra metà da un diario di viaggio, e molto spesso le due cose si sono mescolate. Ora il suo diario è raccolto in un libro che si chiama “L’ospite”, ha una prefazione di Massimo Gaggi, inviato del Corriere della Sera a New York, e si può acquistare su Amazon. Pubblichiamo di seguito il capitolo che racconta le primarie in Ohio.
La sala della Cleveland State University dove Mitt Romney tiene il suo comizio è gremita di persone. In mezzo è stata creata una piccola arena transennata e decorata di coccarde tricolori, da cui l’ex governatore del Massachusetts parlerà alla folla. Intorno ci sono tre tribune di metallo e una folla accalcata dietro le transenne già un’ora prima dell’inizio. Alle loro spalle è sistemata la stampa, oggi meno numerosa rispetto alle ultime apparizioni in Michigan.
Mentre parlo con i sostenitori di Romney incontro Elwin, un signore di 55 anni dallo sguardo simpatico e con pochi capelli che comincia a parlarmi in un buon italiano non appena gli dico la mia provenienza. Elwin è un professore al dipartimento di architettura della Kent State University, dove il 4 maggio del 1970 la Guardia Nazionale degli Stati Uniti aprì il fuoco sugli studenti che manifestavano contro l’invasione americana della Cambogia, annunciata dal presidente Richard Nixon quattro giorni prima. Morirono quattro ragazzi e altri nove rimasero feriti. Elwin ha vissuto due anni in Italia, dove è stato in missione.
«Sei mormone?», gli chiedo già sapendo la risposta.
«Sì», mi risponde, raccontandomi di aver vissuto dal 1974 al 1976 fra Torino, Milano, Como e Genova. Da bravo mormone, Elwin ha passato due anni in missione.
«Ci sono diversi tipi di missione», mi spiega. «Quella tipica si fa a 19 anni e dura due anni, oppure a 21 anni per le donne, che partono per un anno e mezzo. I pensionati invece si impegnano in missioni più elastiche, normalmente fra i sei mesi e due anni, a seconda delle proprie possibilità finanziarie». Per diventare missionari bisogna vivere una «vita cristiana», come mi dice Elwin. Non si deve bere né fumare e bisogna avere il desiderio di diffondere la parola di Dio. Soprattutto bisogna avere abbastanza soldi per potersi mantenere. Chi è interessato invia la propria candidatura, viene convocato per un training durante il quale inizia a conoscere anche la lingua del posto e poi viene inviato in una determinata area geografica. Romney passò i suoi due anni in Francia, dove ebbe anche un brutto incidente d’auto in cui morì uno dei passeggeri. Lui era alla guida. Elwin fu invece mandato in Italia. Si alzava tutte la mattine alle 6.30 per studiare le scritture, poi alle 9.30 usciva per diffondere la parola di Gesù Cristo.
Normalmente fermava persone per strada, domandando se fossero interessate a saperne di più sulla chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, la chiesa mormone.
«Mi ricordo le ore passate in Piazza San Carlo, a Torino, a fermare la gente», mi dice in un italiano arrugginito dal tempo, prima di passare all’inglese. «I più educati mi dicevano ‘abbia pazienza’, per fortuna – scherza – non ricordo le risposte più colorite. Mi ricordo perfettamente invece di un signore che indossava gli occhiali scuri e aveva un cartello con la scritta ‘cieco’. Sedeva ogni giorno alla fine del portico vicino alla banca. Non aveva nessun interesse nella mia religione, ma con la testa seguiva tutte le belle ragazze in minigonna che passavano davanti a lui», mi dice con un largo sorriso.
Altre volte andava di porta in porta a cercare qualcuno interessato a parlare con lui. Se trovava qualcuno incuriosito fissava un appuntamento con tutta la famiglia, durante il quale illustrava i fondamenti della sua religione.
«Alcune erano anime pie», ricorda. «Specie nei primi mesi della missione mi ricordo le difficoltà che avevo a esprimermi in italiano. E poi avevamo mezza giornata libera a settimana, durante la quale facevamo la lavatrice, scrivevamo a casa, facevamo un po’ di attività fisica e visitavamo qualche museo. Facevamo la lavatrice il più in fretta possibile e poi correvamo a dedicarci alle cose che più ci appassionavano».
Nel 1975, a Como, Elwin divenne capo della congregazione locale, che consisteva in quattro missionari e tre membri italiani. Tre anni fa è tornato a trovare gli italiani e alla messa della domenica c’erano oltre cento persone.
«Mi sono commosso», mi racconta. «Non mi sarei mai immaginato questo successo nel 1975. Queste missioni aiutano anche ad allargare gli orizzonti», sostiene Elwin con orgoglio. «Quando facevo il missionario a Torino visitai la Chiesa di San Lorenzo. Era una delle più belle che avessi mai visto. Ho finito per studiare Storia dell’architettura alla Cornell University e ho fatto la tesi proprio su quella chiesa. Mia sorella invece ha fatto la missionaria in Venezuela e ha fatto la tesi sulla tribù Guajiro».
Quando gli chiedo se secondo lui l’Italia è aperta al mormonismo Elwin mi blocca e mi corregge immediatamente.
«Io non sono un seguace di Mormon», mi dice con decisione. «Sono un seguace di Gesù Cristo. Il termine mormoni ce lo hanno dato gli altri. Dovresti chiedermi invece se l’Italia è aperta alla mia fede nei confronti di Cristo. In quei due anni direi che l’Italia era aperta solo in minima parte. La tradizione è molto forte e anche chi era interessato al nostro messaggio subiva la pressione della famiglia o dei datori di lavoro. Ora, tornando in Italia, ho notato invece un paese in cui la religione è un fattore molto meno importante nella vita delle persone».
«Secondo te quanto sarà importante l’aspetto religioso in queste elezioni?», gli chiedo incuriosito.
«Non posso parlare per gli evangelici», mi risponde, «ma posso assicurarti che negli Stati Uniti c’è qualche pregiudizio nei confronti della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Nella mia vita ho incontrato però anche numerose persone che mi hanno accettato e rispettato. Tuttavia alcuni evangelici preferirebbero votare per un cane, piuttosto che un mormone. Sono venuto qua non solo perché credo che Romney sarà un ottimo presidente, ma anche perché ho la sensazione che posso aiutare i miei nipoti a ritagliarsi uno spazio nella società americana, di modo che non dovranno subire i pregiudizi che ho subito io».
I racconti di Elwin sono affascinanti. Prima di salutarmi mi chiede se sono interessato ad andare con lui a vedere alcuni monumenti della chiesa mormone nei dintorni di Cleveland. Il profeta Joseph Smith, a quanto pare, aveva abitato diversi anni a Kirtland, a mezz’ora da qua. Purtroppo non posso, sarò già a Columbus. Lo ringrazio e mi dileguo fra la folla che riempie la sala.
Quando Romney sale sul palco è abbastanza ispirato, abile nel dire alle persone quello che vogliono sentirsi dire. Attacca la Cina, che «con le sue politiche uccide posti di lavoro negli Stati Uniti». Lui, da presidente, non lo permetterà. Oggi doveva esserci anche il carismatico e gigantesco governatore del New Jersey Chris Christie, che però ha dovuto rinunciare a causa del maltempo. Quando Ann e Mitt Romney se ne vanno scompare anche la folla, che fino a poco prima lo aveva incitato con un discreto entusiasmo.
Resto con la traveling press e con i giornalisti locali, mentre i tecnici cominciano a smontare tutto.
Devo aspettare che Meghan, la ragazza che mi ospita, mi venga a prendere. E’ stata lei ad accompagnarmi qua, ma non siamo riusciti a comunicare. Per tutto il viaggio ha parlato al telefono lamentandosi del ragazzo che l’ha lasciata stamattina. Ha parlato solo lei, per oltre venti minuti, senza azzittirsi mai.
Sean fa parte di uno dei team in appalto che allestiscono i rally di Romney. Sono alcune squadre e vengono chiamate a turni. Il suo è composto da sette persone. Normalmente arrivano sul posto il giorno prima.
«Ci vogliono almeno sei ore per montare tutto», mi spiega. A volte seguono la carovana per qualche giorno, altre sono impegnati per una sola giornata. Lavorano in tutto il paese. Devono pensare alle bandiere, ai manifesti elettorali, alle transenne, alle tribune, alle sedie, all’illuminazione, ai palchi per cameraman e fotografi, alle prolunghe, ai tavoli e all’elettricità per la stampa. E sicuramente a decine di altre cose. Sean però non mi sa dire quanto costa il lavoro di una giornata.
«Non sono io ad occuparmi dei soldi», mi dice.
All’Happy Dog di Cleveland stasera c’è musica live. Dopo un ragazzo che sembrava capitato sul palco per caso, ha cominciato ha suonare una ragazza, Cassie, che ha rapito l’attenzione di tutto il bar suonando una versione energica di In The Aeroplane Over The Sea dei Neutral Milk Hotel.
Cleveland è grigia e piovosa come te la aspetti, piena di vecchi edifici da rivoluzione industriale, in mattoncini rossi e vetrate a quadri, che la fanno sembrare una cittadina del nord dell’Inghilterra e si alternano a palazzoni moderni e senza cuore. Lo stadio dei Browns, la squadra di football, svetta imponente proprio in riva al Lago Erie, da cui soffia un vento forte e gelido. Ponti di ferro si insinuano nella città, che durante tutta la giornata è stata funestata da un clima inospitale. Fuori dal bar i semafori appesi ai cavi dell’elettricità in mezzo all’incrocio fra Detroit Avenue e West 58th street dondolano senza tregua mentre Cleveland si prepara ad accogliere il tornado che ha già fatto un morto in Ohio, cinque in Kentucky e otto in Indiana.
Dopo il rally di Romney, io e Meghan ci andiamo a bere una birra. Le mie sono poi diventate tre, mentre lei ha aggiunto solo un ginger ale. Mi ha raccontato di aver avuto problemi con l’alcolismo in famiglia. Suo nonno era un pilota di aerei ed è sempre stato un grosso bevitore, suo padre non l’ha praticamente mai conosciuto. E’ cresciuta con la madre, un fratello e una sorella, entrambi più grandi. Anche per questo a ventidue anni si è sposata con un uomo che aveva vent’anni più di lei. Dopo due anni e mezzo si è svegliata una mattina domandandosi che cosa avesse fatto di male per finire in quel letto, con un uomo che poteva essere suo padre.
Così lo ha lasciato e si è arruolata nell’esercito. Ha fatto il boot camp in New Jersey ed è finita con la Guardia Costiera degli Stati Uniti. Ha vissuto a lungo su una nave, dove una volta ha salvato una barca carica di clandestini dell’Ecuador che stava affondando. Clandestini che poi sono stati gentilmente riaccompagnati fino a casa. Abitava nel sud della California, fra San Diego e Los Angeles. Un giorno le hanno chiesto di scegliere fra l’Alaska e l’Ohio, il suo Stato natale. Ha scelto l’Ohio, dove è tornata sei anni fa.
Meghan ha i capelli neri e dietro agli occhiali di plastica ha grandi occhi verdi. Ha «venticinque tatuaggi e uno zio fuorilegge», mi confida. I tatuaggi sono una cosa di famiglia.
«Mio fratello è nell’esercito e ha tutte e due le braccia tatuate, parte del petto e ora sta lavorando sulle gambe. Mio zio invece è un duro. Era un motociclista e ha avuto seri problemi con la legge. E’ completamente tatuato, fatta eccezione per le mani, il collo e la testa. Se mette una camicia non ti accorgi di nulla».
Meghan ha tatuaggi sulle gambe, sulle braccia, sulle spalle e sulla schiena. Alcuni li ha fatti con sua sorella e con la sua migliore amica. E’ una ragazza dolce, molto gentile. Ogni volta, prima di salire in macchina, apre per primo lo sportello del passeggero del suo vecchio furgoncino Toyota verde che solca le strade dell’Ohio da oltre vent’anni. Lei di anni ne ha trentacinque, compiuti meno di una settimana fa, e deve trovare un ragazzo per il matrimonio della sua amica, che si sposerà a fine mese. Kyle, il suo fidanzato, l’ha lasciata questa mattina dopo tre giorni in cui era praticamente scomparso.
«E’ un ragazzo fantastico, ma lo sentivo che stavo per avere una doccia fredda», continua a ripetere a me e alle decine di persone con cui l’ho sentita parlare al telefono nelle ultime ore. Ha avuto una vita difficile Meghan, non è una persona particolarmente ottimista. Ora è in un periodo di transizione. Dopo nove anni ha lasciato una carriera sicura nella Guardia Costiera e ora lavora part time all’ospedale dei reduci di guerra di Cleveland.
«E’ un lavoro che odio e non vedo l’ora di andarmene da questo posto», mi ha detto almeno sette volte. È alla ricerca di una nuova vita ma non può andarsene. Ha ventiquattro anni di mutuo ancora da pagare e il mercato immobiliare «in questo momento fa schifo». Lo scorso anno ha dovuto dichiarare bancarotta perché non è riuscita a ripagare le spese della carta di credito, e ora è bloccata a Cleveland senza poter vendere questa casa che è diventata più un problema che un investimento, come invece aveva pensato sei anni fa, al momento dell’acquisto. Ho provato a consolarla, a convincerla che probabilmente Kyle aveva avuto da fare al lavoro ed era stanco. Nelle stesse ore però Meghan, che lavora solo nei weekend, ha avuto solo tempo per rimuginare sull’assenza improvvisa di questo ragazzo che frequentava da appena tre mesi. Il suo problema principale, questa mattina, era riprendersi le chiavi della grande casa di legno dove vivono anche i suoi due gatti dai nomi giapponesi e un coinquilino che non ho mai incontrato. Stasera, dopo la lezione di yoga, è un’altra persona. E’ una brava fotografa e una ciclista impavida. Vuole pedalare per l’America alla ricerca di un lavoro, portando avanti un progetto fotografico. Sembrava entusiasta.
Mentre il sole tramonta sulle campagne dell’Ohio appoggio la testa al finestrino di questo ennesimo Greyhound che stanotte mi porterà a Columbus, capitale dello Stato. Mi lascio alle spalle Cleveland, il suo grigiore invernale e la neve che ha cominciato a cadere proprio mentre lasciavo casa di Meghan.
Non c’era molto da fare a Cleveland, ma questa mattina siamo andati insieme alla hall of fame del Rock’n’roll. C’erano memorabilia di ogni epoca, dagli anni Cinquanta a oggi. I reperti di Beatles e Rolling Stones erano disposti nella stessa sala, gli uni davanti agli altri. E’ stato emozionante.
Salendo all’ultimo piano del museo ci siamo imbattuti in una vecchia rockstar ingobbita dagli anni, dal troppo alcol e dalle droghe. Era nascosto in una cabina, ascoltava musica con gli occhi chiusi, le ginocchia piegate e un sorriso soddisfatto sulla bocca. A farmi accorgere della sua presenza è stato inizialmente l’odore acre e intenso di alcol che emanava. Aveva in testa un cespuglio di capelli ancora neri e folti e sulle spalle forse sessant’anni mal portati. Era magrissimo, indossava un giacchetto di pelle nero, jeans attillati e un paio di stivaletti neri, a cui si aggiungeva un anello a ogni dito, fatta eccezione per il pollice. L’abbiamo incontrato di nuovo venti minuti dopo al negozio del museo. Cercava intensamente un gadget che però non è riuscito a trovare. Forse il portachiavi del gruppo in cui aveva suonato un anno, o a cui magari aveva aperto il concerto sul finire degli anni Settanta. Oppure lui di quel gruppo era il leader. Non gliel’ho chiesto, non lo saprò mai.
Il mio viaggio a Columbus è una scommessa. Inizialmente mi aveva offerto ospitalità una coppia di circa quarant’anni, poi, all’ultimo, ieri sera mi ha risposto Jane, che non aveva nessuna recensione sul sito di Couch Surfing e nella foto appariva solo di spalle. Il suo profilo era divertente ma non rivelava nulla. Non ho esitato un attimo e le ho detto che sarei stato felice di essere suo ospite.
Oggi è sabato. Ieri ho parlato anche con Rick, il responsabile della stampa di Romney. Mi ha detto che domani sarebbero stati in un altro Stato e che sarebbero tornati in Ohio lunedì. Andando per esclusione ho scelto la capitale. Martedì poi Romney e la sua carovana saranno a Boston per il super tuesday. E’ un moto perpetuo, quello del candidato, del team e dei giornalisti. Negli ultimi giorni sono stati nello Stato di Washington, in Idaho e in Ohio. Ieri ho assistito a una conversazione divertente in sala stampa. Non riuscivano a capire in che fuso orario fossero, erano andati in confusione per i troppi voli presi.
«Eastern time», gli ho detto intromettendomi nella discussione. «Io viaggio via terra», ho aggiunto ridendo. Non mi potevo sbagliare, specie perché sono piantato in riva ai Grandi Laghi da ormai otto giorni. La mia campagna elettorale è sicuramente molto più statica di quella dei candidati.
Robert è il proprietario di Mike’s, un bar & grill di Columbus che non ha cucina. Ha i capelli a spazzola grigi, la barba corta e incolta e le braccia muscolose. Indossa una tshirt grigia dell’esercito e un paio di jeans da cui spunta il calcio di una pistola. Robert è un duro dai modi gentili. Ha sessant’anni, è ispido quanto sensibile e mi offre da bere una Yuengling in quanto amico di Jane. Io però non riesco a togliere gli occhi da quella pistola infilata nei pantaloni.
Da Mike’s c’è un’umanità considerevole, persone di ogni età ed estrazione sociale che bevono insieme, ascoltando musica country e ballando solo quando ispirati. Oltre a un pugno di trentenni c’è un folto schieramento di anziani ubriachi intorno al bancone, uomini e donne. C’è un ragazzo sporco di sangue sul mento, forse è caduto, una signora nera con solo quattro denti e molto distanziati, un anziano ubriaco che molesta le poche ragazze giovani continuando nel frattempo a perdere l’equilibrio e una donna di sessantacinque anni completamente calva, con un piercing al naso e un coniglietto di Playboy al lobo dell’orecchio, che festeggia il compleanno del marito. I movimenti di tutti sono rallentati, i discorsi strascicati. Ogni tanto sento Robert che rifiuta di servire un altro bicchiere e consiglia ai suoi clienti di andare a casa.
A presentarmelo è stata Jane, che questa sera è venuta a prendermi alla stazione del Greyhound. L’ho trovata seduta sulla panchina che leggeva un libro. Da Cleveland sono fuggito. La città era grigia. Jane ha 22 anni, è esile e ha i capelli castani corti che le arrivano al collo. Sulle dita ha uno smalto rosso chiaro e consumato, si rolla sigarette con tabacco American Spirit e parla con marcato accento dell’Ohio.
«Oh man», esclama di continuo.
È nata a Philadelphia, ma è cresciuta qua a Columbus. I suoi genitori si sono conosciuti a Londra, dove erano nell’esercito. Andavano insieme a vedere partite di calcio allo stadio, tifavano Tottenham. Venivano entrambi da famiglie povere e molto cattoliche. La madre di Jane non ha mai saputo chi fosse suo padre ed è stata cresciuta in Missouri da un ex carcerato che la violentò. La nonna di Jane è stata sposata nove volte e ora vive con un marito e numerose armi da fuoco in una specie di campo di addestramento, dove con i loro amici si preparano alla rivoluzione.
«Sono sostenitori dei Tea Party», mi dice. «Io li ho conosciuti solo dopo aver compiuto sedici anni».
Due anni dopo Jane è stata cacciata di casa dai suoi genitori. Aveva passato la notte a casa di un ragazzo, un amico. Si era semplicemente addormentata sul divano. Senza soldi, senza un posto dove andare, ha cominciato a spacciare.
«Era il modo più semplice per poter tirare su dei soldi», mi racconta ridendo. «Vendevo erba e coca, e mi sentivo moralmente obbligata a provare la roba, prima di venderla».
Camminando per le strade di Columbus Jane saluta affettuosamente decine di persone, sembra che conosca tutta la città. Molti erano suoi clienti, mi dice poi. Un giorno andò a fare una consegna al dipartimento di arte della Ohio State University. Il cliente era un ragazzo che aveva appena venduto due quadri alla più famosa artista locale. Non avendo soldi per pagarla il ragazzo le disse di seguirla a casa dell’artista, dove avrebbe ritirato il pagamento per i suoi lavori. Finirono a cena con tutta la famiglia, marito e figli compresi. Pur ignorando l’occupazione della sua ospite, l’artista si innamorò della sua storia e decise di offrirle un posto di lavoro. Jane ha fatto pace con i genitori, ma non è più tornata a casa. Ogni tanto però va a pranzo da loro. Si è laureata in estate e il prossimo anno presenterà la domanda di ammissione alle migliori scuole di legge del paese.
Vive in un grande loft industriale nel centro di Columbus, con l’ascensore rotto e le scale ripide. Quando arriviamo a casa c’è una mostra fotografica nella sala spaziosa che spesso insieme ai suoi due coinquilini usa per eventi o proiezioni. Lei si occupa di cinema d’essai. Proietta film ogni lunedì. In casa ci sono una trentina di persone e un intenso odore d’alcol. La birra rende il pavimento leggermente appiccicoso. La sua camera è in un angolo della sala, apriamo la porta ed entriamo. Ha un materasso in terra in un angolo, una piccola e vecchia scrivania e una stufa per scaldare l’aria gelida che aleggia nella stanza.
Mi lascia le coperte arrotolate su un lato del letto e va a dormire da Matt, il suo ragazzo. L’unico che ha avuto dopo essere stata violentata. Due volte. Me lo ha raccontato così, tra una birra e l’altra, lasciandomi senza parole. La prima volta fu un professore di matematica dell’università, quello che le procurava la droga da vendere.
«Sai, a un certo punto diventi come un oggetto di proprietà», mi spiega. Non so che dire. Raccontare queste cose a uno sconosciuto a volte è molto più facile.
Ne ho parlato solo a Matt», continua. «Lui è stato sempre molto dolce con me. La seconda volta è stato il fratello maggiore di un mio cliente. Sono entrata in casa e c’era solo lui. Non l’ho denunciato, non avrei ottenuto nulla». Continuo a restare senza parole, mormoro solo un timido mi dispiace.
«Oh tranquillo, te lo avevo detto che avevo visto un sacco di merda», mi dice con un sorriso.
Martedì Jane farà la volontaria ai seggi per le elezioni. Prenderà 10 dollari all’ora lavorando dalle 5.30 della mattina alle 8.30 di sera. Altri 7,50 dollari li prenderà oggi per il training di quattro ore a cui la accompagno. È domenica, e al training ci sono circa ottanta persone. Quattro o cinque sono ragazzi, molti invece sono pensionati. La lezione introduttiva sul ruolo dei volontari inizia alle 3 del pomeriggio. Serve a spiegare l’importanza del loro lavoro e la cura che devono dedicare agli elettori, specialmente quelli con handicap. L’atmosfera è rilassata e il trainer ha fatto numerose battute per mantenere alta l’attenzione del gruppo e rendere meno noiosa la lezione. I volontari vengono poi divisi in gruppi di sei persone. Noi ovviamente siamo in sette. La nostra seconda trainer è Danny, una signora afroamericana di circa 35 anni.
«Mia figlia di otto anni l’altro giorno mi ha detto che sono un eroe americano perché faccio la volontaria», ci racconta con orgoglio all’inizio della seconda parte della lezione, molto più tecnica.
A differenza dei caucus, che sono organizzati separatamente dal partito repubblicano e da quello democratico in luoghi diversi, alle primarie votano tutti insieme. Per questo motivo è obbligatorio che gli elettori dichiarino prima la propria affiliazione al partito. Se non lo fanno non possono votare. Oltre a democratici e repubblicani, martedì voteranno anche verdi e libertari.
Danny fa una lunga serie di prove pratiche usando finti documenti di elettori dai nomi altisonanti. C’è un Al K. Seltzer, uno Stanley Cupp, un Joe Sample e anche una signora Pillow Case, che ha un handicap, non può scendere dalla macchina e manda sua figlia Book Case a chiedere informazioni al seggio. Les, un settantenne che ha preso parte a 27 elezioni, risponde giusto a una domanda e vince una mentina premio. La lezione pratica termina dopo due ore e Danny ringrazia il suo gruppo.
«Come dice mia figlia», spiega in tono solenne, «anche voi siete eroi americani. Fatta eccezione per te», aggiunge indicandomi con un dito non troppo ironicamente.
«Ma dai, Danny», le dico. «Voglio essere anche io un eroe americano, non sono neanche stato pagato per stare qua». È inflessibile.
«Beh, magari sei un eroe in America», mi consola Jane ridendo, con una pacca sulla spalla.
Dopo la lezione di Danny ci dirigiamo nella palestra della scuola superiore, dove ci mettono alla prova con le voting machine, i macchinari su cui martedì voteranno gli americani. L’ultima ora di lezione è la più divertente. Ogni membro del gruppo farà funzionare a turno le macchine. Uno farò l’elettore e l’altro il volontario. L’ultima trainer è Gretchen, una signora bionda e magra, con il viso allungato e gli occhiali troppo grandi. Indossa una felpa turchese sopra un maglioncino a collo amaranto e dei jeans a zampa d’elefante fuori moda da quarant’anni. Inizia a spiegarci come montare la macchina, che sembra più che altro una sedia pieghevole di plastica da giardino. Poi passa al funzionamento. Per votare bisogna inserire una cartuccia e poi i dati dell’elettore, che alla fine sceglie i candidati e conferma. La macchina registra tutti i dati su uno scontrino.
Jane mi racconta che quest’anno ci sono stati pochissimi volontari e che lei è qua per questo motivo. Per senso civico. Fra l’altro non ha mai votato alle presidenziali, perché nel 2008 era ancora minorenne. Quando è il suo turno mi sceglie come write in candidate, ovvero come candidato non presente in lista che può essere scelto scrivendone il nome senza sbagliarne però lo spelling, cosa piuttosto complicata in America. Dopo aver ricevuto il mio primo e ultimo voto come candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Gretchen armata di buon cuore mi fa provare la macchina. Seleziono i miei candidati, confermo e invio i voti.
«Grazie», le dico. «Se sarò veramente fortunato voterò di nuovo fra vent’anni!».
Il lunedì mattina il collega italiano che in questo viaggio mi ha tolto costantemente dai guai mi offre un passaggio verso Miamisburg, dove Rick Santorum tiene il suo comizio all’interno di una scuola elementare. La strada è ghiacciata e c’è una nebbia fitta. Durante l’ora e mezzo di viaggio incontriamo tre macchine cappottate lungo la strada, poi arriviamo alla Dayton Christian School. Il salone è stracolmo, ci sono tantissimi ragazzi delle elementari e delle medie che sventolano cartelli colorati per l’ex senatore della Pennsylvania. Santorum è caparbio e cattura l’attenzione dei suoi sostenitori dicendo che «essere americani è un’idea», non un semplice fatto di nazionalità.
Dopo il comizio c’è tempo per una divertente gita al museo dell’aeronautica militare di Dayton, vicino alla base militare di Wright-Patterson. All’interno c’è anche il Bockscar, l’aereo che sganciò la seconda bomba atomica della storia, nota come fat man, sulla città giapponese di Nagasaki il 9 agosto del 1945. Poi è il turno del comizio di Romney a Zanesville, in quello che sembra un albergo boutique.
L’ho sentito ripetere nuovamente la storia di come in quarta elementare sua moglie Ann fosse innamorata di lui, che invece neanche la vedeva, e di come poi a una festa, quando aveva sedici anni, fermò un suo amico che la stava riaccompagnando a casa.
«Sai, io abito più vicino a casa di Ann, la riporto io», gli disse.
Mentre ero a cinquanta centimetri da lui, che firmava autografi, e alcuni sostenitori gli dicevano di scegliere Santorum come vicepresidente, gli ho chiesto quale fosse invece la sua, di scelta.
«Non te lo dico», mi ha risposto ridendo.
Nella calca mi imbatto in Lisa, la giornalista dello Utah che mi aveva dato un passaggio a Las Vegas anche se il suo cameraman non mi voleva a bordo. In faccia le si allarga un sorriso enorme.
«Sono così felice che tu ce l’abbia fatta fin qua!», mi dice abbracciandomi e baciandomi sulla guancia. «Ti aspettiamo nello Utah!». Che sarà l’ultimo Stato a votare, il 26 giugno.
Quando la sera torno a casa, Jane non c’è. È già da Matt. Accanto al letto mi ha lasciato il suo computer acceso su “Le avventure acquatiche di Steve Zizou”, il film di Wes Anderson che le avevo ammesso di non essere mai riuscito a vedere. Accanto c’era una ciotola piena di popcorn e uno snack al cioccolato.
Ci sono momenti in cui la velocità dei nostri pensieri e della nostra vita raddoppia. E’ uno scatto improvviso, brusco e perfettamente identificabile. Durante la prima parte di questo viaggio mi era successo a Las Vegas, nel momento esatto in cui ruppi gli argini della paura e feci il primo autostop finendo nell’auto di Mitch, il corrispondente del Toronto Star. Sono momenti in cui spariscono i dubbi, e insieme a loro le scuse che ci diamo ogni volta, e conta solo l’istinto, quello che ci spinge a fare cose folli, eppure spesso giuste. Sono i momenti in cui guadagniamo velocità. Ce l’ho avuto di nuovo stamattina, mentre scrivevo un articolo in uno Starbucks dietro casa di Jane.
Un barbone pazzo, con la barba e un cappello di lana, ha cominciato a parlarmi mentre ero ancora a metà del mio articolo, continuando a distogliermi da quello che stavo cercando di scrivere. Voleva parlare di elezioni, del fatto che lui tifa per Obama, «nonostante il presidente sia un cattolico», che poi non lo è, e della sicura riconferma a novembre.
Mentre mi parlava ho sentito una bolla crescermi nello stomaco, forse d’ansia, forse di entusiasmo e voglia di correre. Ho capito che non potevo rimanere fermo a Columbus la notte del super tuesday, con Romney a Boston e Santorum a Steubenville, una cittadina di 20.000 persone al confine fra Ohio e Pennsylvania. Ho sentito il bisogno di partire.
Mentre finivo l’articolo ho cominciato a cercare un volo per Boston. Quaranta minuti dopo avevo mandato l’articolo, avevo fatto la valigia e anche il check in. Ero al gate, in attesa di imbarcarmi su questo aereo che fra mezz’ora atterrerà a Boston, nella città dove Romney ha il suo quartiere generale, con tre ore di anticipo sul suo party elettorale del super tuesday. La vecchia Jane non l’ho più vista. L’ho chiamata per salutarla qualche minuto prima di salire a bordo.