Il Taj Mahal a Dubai
Francesco Battistini racconta sulla Lettura i nuovi faraonici progetti degli emiri per costruire repliche dei palazzi e dei monumenti più conosciuti al mondo
Sulla Lettura del Corriere della Sera, Francesco Battistini racconta il Taj Arabia, l’ambizioso progetto di costruire una replica del mausoleo del Taj Mahal di Agra (India) a Dubai. Il palazzo sarà utilizzato per scopi commerciali e sarà all’interno di un parco in cui saranno costruite le repliche di altri monumenti ed edifici famosi da tutto il mondo. Il progetto segna una nuova fase degli investimenti nel più noto degli Emirati Arabi Uniti: superata la crisi del 2008, gli emiri hanno ripreso a investire risorse negli immobili, passando dalla costruzione degli enormi grattacieli alle imitazioni dei palazzi più conosciuti del pianeta.
«Immagina!…». Voce carezzevole dello speaker. Musichetta, dissolvenze, mille luci nella notte araba. «Immagina come sarà questo sogno che diventa realtà!…». Lo spot più replicato sulle tv del Golfo è una coazione a immaginare che non ti molla dai maxischermi dell’aeroporto ai normoschermi dell’hotel. La trapanante pubblicità ai trapani che stanno edificando il complesso di Taj Arabia, l’Ottava Paccottiglia del mondo: un patrimonio artistico fai-da-te col nuovo Taj Mahal di Dubai che sarà affiancato dalla nuova Torre di Pisa di Dubai, che farà ombra alla nuova Tour Eiffel di Dubai, che svetterà sulla nuova Grande Muraglia di Dubai, che circonderà le nuove Piramidi di Dubai… Più che uno spot, un ossimoro: non si sogna proprio un bel nulla di fronte all’ultimo, gigantesco esempio d’architettura Frankenstein. Che falsifica il vero e certifica il falso. Che non sembra avere alcuna pretesa d’operazione culturale e si propone per quel che è: memoria fotocopiata.
Il Taj Mahal 2.0 sarà pronto in un paio d’anni, quando ce ne vollero venti per quello originale. Sarà quattro volte più grande e, al posto dei cenotafi, avrà un albergo da 300 stanze con annessi casinò, ippodromi, spa e compiacenti russe. Non farà da tomba per la moglie dell’imperatore, ma da primo talamo per le coppie in luna di miele. Non sarà il «castello in aria» che incantava Bayard Taylor, semmai un terreno investimento per «ammirare grandi opere tutte insieme!». Un miliardo di dollari, cento chilometri quadrati in marmi, fontane, nicchie, minareti, cupole, giardini, calligrafie coraniche e foglie di loto incise: tutto uguale, pantografato senza immaginazione, senza sogno.
Un’americanata, si diceva il secolo scorso. Un’arabata, diciamo degli emiri. Poco da aggiungere sui contenuti: Dubailand è un parco giochi e la replica del Taj Mahal, la pubblicizzata «nuova città dell’amore», solo un pallido facsimile dell’eros vero che nei serragli generò la storia del Taj Mahal originale, «una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo» (Tagore). Niente di nuovo sotto il sole dei deserti kitsch: in principio fu la finta Venezia di Las Vegas, replicata all’infinito da Macao al Brasile, arricchita pure quella di piramidi, castelli e statue della libertà (in cambio il miliardario Adelson, quello che finanzia la corsa alla Casa Bianca di Romney, abbatté la storia vera del luogo: il mitico hotel Sands che aveva ospitato Sinatra e Sammy Davis). Oggi tocca ad arabi e cinesi, capaci di rifarsi le ville palladiane fra le baracche palestinesi di Nablus o i masi tirolesi in mezzo alle metropoli. «Un’ansietà culturale», per dirla con un’archistar come Rem Koolhaas: mostri che creano contrasto con l’ambiente circostante. Architetture che violano ogni copyright. «Perché quello che vedo in quasi tutti i sistemi — parole sempre di Koolhaas — è l’incapacità d’anticipare, smuovere e prendere iniziative sul futuro, 40 o 50 anni oltre, anche quando è evidente che le città cresceranno o si restringeranno rapidamente».