Le migliori 10 canzoni di Elliott Smith
Scelte dal peraltro direttore del Post, nel suo libro "Playlist"
Il 21 ottobre del 2003 Elliott Smith è stato trovato morto nella sua casa di Los Angeles. Queste sono le sue canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il suo libro Playlist:
Elliott Smith
(1969, Omaha, Nebraska – 2003, Los Angeles, California)
«Il suo corpo è stato trovato dalla sua ragazza nella loro casa nel 445 quartiere di Silver Lake. Aveva una sola ferita di coltello che all’apparenza si era inflitto da solo, stando all’Associated Press, che ha riferito le parole del coroner».
Elliott Smith aveva trentaquattro anni, ed era ritenuto dalla critica anglosassone il più grande tra i giovani cantautori americani. Il numero uno. Negli Stati Uniti era finalmente diventato un po’ famoso, soprattutto dopo che le sue canzoni erano state usate nel film Will Hunting: interviste televisive e tutto quanto. Ma malgrado il diluvio di complimenti e riconoscimenti, lui si sentiva sempre allo stesso modo. Fuori luogo. “Non corrispondo a nessuna idea di quello che dovrei essere”.
No name #3
(Roman candle, 1994)
Dove si capì già che Smith era un genio della melodia. Solo chitarre e voce (qualsiasi arrangiamento pop più lezioso l’avrebbe rovinata). È
una delle canzoni che poi scelse per la colonna sonora di Will Hunting.
Needle in the hay
(Elliott Smith, 1995)
Dove lo capirono quelli che non lo avevano capito al giro precedente: era un genio della melodia. “Se lo chiamate scrivere canzoni, sembra una cosa di concentrazione calcolata e applicata: io non so fare musica così, non so sedermi e scrivere una canzone, vado dietro a delle impressioni, cose di un minuto”.
Between the bars
(Either/Or, 1997)
Anche “Between the bars” fu ritoccata da un’orchestra per essere usata in Will Hunting. Una recensione, al tempo della sua prima uscita, diceva questo: «Sussurrandosi una via nel vostro cuore con la voce di un angelo, il nuovo disco di Elliott Smith è il tipo di musica che sentireste in un ascensore per il paradiso: anche se tutto intorno a voi è gradevole e accogliente, sapete benissimo di essere morti». E se un autobus a due piani ci venisse addosso sulla musica di “Between the bars”, morire così sarebbe un modo celestiale di morire.
Miss Misery
(Good Will Hunting, 1997)
Si sentiva sempre un po’ fuori posto, Smith, ma aveva smesso di preoccuparsene a ventisette anni, quando si trovò, più sconosciuto del barista dell’Academy, sul palco degli Oscar a Hollywood. Doveva suonare “Miss Misery”, candidata come miglior canzone: c’era un miliardo di persone a guardarlo, sparse per il pianeta, ma forse ne approfittarono per andare in bagno, prendere qualcosa dal frigo, o cambiare canale. Lui suonò due minuti e undici secondi, infilato in un abito bianco che non riusciva a togliergli di dosso quell’aria del tutto anonima e passeggera, persa nel luccichio lasciato dalla precedente esibizione di Céline Dion: «fu abbastanza buffo, nessuno di tutti quelli che si trovavano lì era venuto per me». Vinse Céline Dion, naturalmente.
Waltz #2
(XO, 1998)
“A questo punto non ti conoscerò mai. Ma ti amerò lo stesso”. Fu il primo singolo a circolare nelle radio e a farlo conoscere in giro. Un valzer, per l’appunto, dedicato ai genitori e a un ricordo bambino di loro in un locale di karaoke, con citazioni di “Cathy’s clown” degli Everly Brothers e “You’re no good” di Linda Ronstadt. Un riff di chitarra (e poi di pianoforte) da museo.
Sweet Adeline
(XO, 1998)
Gli americani il ritornello lo chiamano “chorus”: che a noi parrebbero due cose diverse, ma sentite il chorus di “Sweet Adeline”. Un signor chorus.
I didn’t understand
(XO, 1998)
Nel 1999, Elliott Smith cantò una canzone bellissima sui titoli di coda di American Beauty: la canzone era “Because”, dei Beatles. Ce l’aveva così addosso, che qualche anno prima aveva usato un arrangiamento e una melodia simili per una canzone sua, “I didn’t understand”, tutta a cappella: uno sfogo drastico e disilluso nei confronti di un amore sbagliato.
Everything means nothing to me
(Figure 8, 2000)
“Audio-Video Solutions” è un negozio al 4334 di Sunset Boulevard, a Los Angeles. Il muro adesso è coperto di graffiti e scritte. È il muro che sta alle spalle di Elliott Smith sulla copertina di Figure 8, il suo ultimo disco da vivo: è diventato meta di pellegrinaggi e omaggi dei fans. “Everything means nothing to me” è una specie di “Lucy in the sky with diamonds” di Elliott Smith, con escalation del refrain e risolutivo intervento orchestrale.
Wouldn’t mama be proud
(Figure 8, 2000)
“Wouldn’t mama be proud” è una presa in giro – auto presa in giro – delle aspirazioni a diventare una rockstar, uno famoso, servito e riverito sugli aerei privati. Una volta Smith spiegò: «In giro c’è troppa pressione sul culto del vincitore, del numero uno: se non mostri quella immagine di te, allora sei uno sfigato. E se ti lamenti del culto del successo, allora la gente pensa che tu stia esibendo il culto dell’emarginato, del ribelle».
A fond farewell
(From a basement on the hill, 2004)
From a basement on the hill è il disco che fu messo insieme dalla madre e dall’ex fidanzata di Elliott Smith dopo la sua morte. Sono le canzoni a cui stava lavorando e che aveva inciso, di cui fu fatta una selezione senza consultare il produttore con cui aveva lavorato (che si disse piuttosto critico sul risultato) né la sua successiva fidanzata, Jennifer, quella che lo aveva trovato morto. “A fond farewell” ha delle chitarre che ricordano George Harrison (ed Elliott Smith) e racconta di un cinico distacco da se stesso: “questa non è la mia vita, è solo l’addio a un amico”.