Che fine fanno i quadri rubati?
Il furto di sette opere in Olanda è l'occasione per spiegare chi li ruba e che cosa se ne fa, e per ricordare un clamoroso furto irrisolto avvenuto in Italia 43 anni fa
di Giovanni Zagni
Intorno alle 3 di ieri notte, sette quadri sono stati rubati al museo Kunsthal di Rotterdam. I dipinti sono quasi tutti opere di autori molto famosi: un Picasso, un Gauguin, un Matisse, un quadro di Lucian Freud del 2002 e due di Claude Monet.
Il periodico statunitense The Atlantic ha intervistato un grande esperto di furti d’arte: Robert Wittman, che nel 2004 ha fondato l’Art Crime Team dell’FBI. È una squadra di 14 agenti che in pochi anni ha recuperato oltre 2500 opere d’arte per un valore totale di più di 150 milioni di dollari. Nel corso della sua carriera, Wittman ha agito più volte sotto copertura, presentandosi come un possibile acquirente e contattando personalmente i ladri o i custodi delle opere. Ha parecchie cose da raccontare – sulla sua esperienza ha scritto un libro – e quella principale è che i grandi capolavori non riescono mai a essere venduti.
Wittman dice che le persone che fanno questo tipo di furti sono «bravi ladri ma pessimi venditori»: progettano di rubare non su commissione ma raccogliendo qualche notizia sul crescente valore del mercato dell’arte e sulle cifre molto alte che raggiungono alcune opere, dopo di che mettono in atto piani anche molto complicati per entrare nei musei e rubare i capolavori. In uno dei casi che Wittman ricorda come più organizzati e più complessi, a Stoccolma, i ladri entrarono armati di mitragliatrici in pieno giorno, fecero sdraiare tutti a terra e rubarono tre quadri, due Renoir e un autoritratto di Rembrandt, del valore totale di circa 35 milioni di dollari. Dopo di che fecero esplodere due autobombe fuori dal museo per rallentare la polizia, mentre loro scappavano via acqua con un motoscafo.
Quello che sfugge ai ladri è che il valore di un’opera d’arte dipende dall’autenticità e dalla sua storia, ma anche dai documenti che provano la sua provenienza legale. Senza i documenti che accompagnano un’opera d’arte, questa è sostanzialmente invendibile perché non può entrare nel mercato, e quindi nessuno la acquisterà: l’unica cosa da fare è tenersela e «ammirarla», ma di solito i ladri non organizzano operazioni così complesse per abbellire i loro soggiorni.
A Stoccolma, tutti e tre i dipinti rubati in modo così elaborato vennero recuperati nell’arco di cinque anni: erano ancora in possesso di chi li aveva rubati ed era stato impossibile per loro trovare acquirenti. Wittman riconosce però che non sempre i quadri vengono recuperati: i 13 rubati nel più grande furto d’arte della storia, che avvenne nel 1990 al museo Isabella Stewart Gardner di Boston, non sono mai stati ritrovati. Il loro valore complessivo è di circa 500 milioni di dollari (oltre 380 milioni di euro) e comprendono un Vermeer, tre Rembrandt e cinque disegni di Degas.
Wittman pensa che anche in questo caso i quadri siano semplicemente stati depositati da qualche parte e siano ancora in possesso della criminalità. Pochi anni fa, durante le sue operazioni sotto copertura, venne a sapere che un gruppo di criminali di Marsiglia stava cercando di vendere 75 opere che venivano da furti d’arte in tutta Europa: anche se i depositi delle opere non sono mai stati trovati, è possibile che contengano molti quadri ancora dispersi.
Secondo Wittman ci sono tre tipi di ladri che commettono questi furti. I primi sono del tipo di quelli che commisero il furto a Stoccolma: persone esperte, che hanno già commesso rapine in altri tipi di ambienti e che vedono punti deboli nei sistemi di sicurezza dei musei. Così decidono di comportarsi con il museo come farebbero con una gioielleria, sfruttando l’occasione. Il secondo tipo invece è composto da quelli che hanno contatti all’interno del museo, dal curatore al custode, e questo avviene in un numero altissimo di casi. Il terzo tipo è quello che Wittman chiama dei «taccheggiatori»: ladri improvvisati, che agiscono quando ci sono pochi sistemi di sicurezza e si limitano a entrare nel museo, staccare il quadro dal muro e portarselo via.
Ma quasi mai, ripete Wittman, le opere degli autori più famosi vengono vendute. Ci sono molti esempi di quadri celebri che sono stati ritrovati anche a lunga distanza dal furto: una delle prime versioni dell’Urlo di Munch – in totale ne esistono quattro – venne rubata due volte, nel 1994 e nel 2004, e due volte ritrovata. Un altro recupero celebre è quello della Gioconda, che venne rubata nel 1911 e ritrovata due anni dopo: erano altri tempi, il quadro era poco o nulla sorvegliato e venne portato via sotto un cappotto da un dipendente italiano del Louvre, Vincenzo Peruggia, che pensava che l’opera dovesse tornare in Italia. Peruggia, dopo essersela tenuta sotto il letto per mesi, provò a venderla al direttore degli Uffizi di Firenze, che naturalmente allertò le autorità e recuperò il quadro.
C’è una motivazione molto semplice per cui i capolavori rimangono invenduti. Se qualcuno ha la disponibilità economica per comprare un Picasso da diversi milioni di dollari, infatti, farà di tutto per assicurarsi che la sua provenienza sia legale e che tutti i documenti di accompagnamento siano in ordine. Neppure il mercato nero delle opere d’arte sarà interessato a refurtiva così “ingombrante”. Qualche possibilità di vendita, invece, c’è per i quadri meno conosciuti e di minor valore, che possono essere venduti al di fuori dei canali più ufficiali oppure nei mercatini locali. Per le opere che sono vendute a poche centinaia o migliaia di euro, i controlli non sono così rigidi e anche gli acquirenti fanno meno controlli. Secondo Wittman, questa destinazione è quella «della larga maggioranza dei furti d’arte, ma non dei furti come quello di Rotterdam, che succedono una volta all’anno».
Mentre si parla del furto di Rotterdam, è il caso di ricordare un celebre furto insoluto nella storia dell’arte italiana, che probabilmente ha avuto un finale drammatico. Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969, infatti, venne rubato un grande quadro di Caravaggio dalla parete dell’Oratorio della Compagnia di San Francesco nella chiesa di San Lorenzo, nel degradato quartiere della Kalsa a Palermo: il quadro era nascosto sotto un telo, come accadeva a moltissime opere d’arte nell’Italia di allora, veniva esposto pochissime volte al pubblico e non aveva alcun dispositivo di sicurezza. Tre mesi e mezzo prima del furto, la trasmissione di RAI Due Capolavori nascosti aveva dedicato una puntata a questo capolavoro semiabbandonato (e dopo il furto ci fu chi la accusò assurdamente di averlo istigato).
La Natività, un grande olio su tela di circa 3 metri per due, era l’unico quadro conosciuto dipinto da Caravaggio durante il suo soggiorno piuttosto misterioso a Palermo, nel 1609, pochi mesi prima di morire. Venne rubato forse di notte, forse la sera precedente o addirittura nel pomeriggio: la tela venne tagliata dalla cornice, probabilmente arrotolata e portata via su un’Ape. La storia del furto e di quello che ne seguì è stata raccontata in un bel libro di Luca Scarlini, Il Caravaggio rubato. Mito e cronaca di un furto, pubblicato quest’anno da Sellerio.
Che cosa sia successo al quadro di Caravaggio non si sa, ma tutte le informazioni portano a dire che non sia mai rientrato nel mercato dell’arte e non sia stato venduto. Secondo alcune ricostruzioni, basate su testimonianze frammentarie, indizi sparsi, dichiarazioni di pentiti e forse una dose di leggenda, i ladri erano due mafiosi di basso livello che poco dopo il furto mostrarono l’opera a Tano Badalamenti, uno dei massimi capi di Cosa Nostra.
Da allora la tela rimase nelle mani della mafia: sono documentati diversi tentativi di venderla tra il 1969 e il 1981, ma si trattava di una refurtiva che nessuno fu mai disposto a comprare. Forse venne seppellita insieme a due chili di eroina e due milioni di dollari, il “tesoro” del boss Gerlando Alberti, forse venne distrutta, bruciata, perché troppo danneggiata negli anni dopo il furto (un possibile acquirente, vedendola, si sarebbe messo a piangere): nel 2009, il pentito Gaspare Spatuzza disse di aver saputo in carcere, da un altro mafioso, che veniva tenuta in una stalla ed era stata mangiata dai topi e dai maiali.
Negli anni, la Natività è stata citata molte volte da diversi pentiti, che hanno dato versioni molto diverse del suo destino e spesso l’hanno legata agli episodi più clamorosi della storia della mafia negli ultimi anni. Giovanni Brusca disse che l’opera entrò come merce di scambio nella famigerata trattativa tra lo Stato e la mafia di cui si torna a parlare in questi giorni, in cambio di un fallito tentativo di ammorbidire il regime di carcere duro per i mafiosi (il celebre 41 bis). Salvatore Cangemi, un altro pentito, aggiunse il particolare romanzesco che spesso il quadro era esposto come simbolo di potenza durante le riunioni dei boss mafiosi.
Scarlini espone cinque ipotesi sul suo destino: la cosa sicura è che da trent’anni del quadro si sono perse completamente le tracce e da allora sono entrati in campo i racconti di molti uomini di mafia, di scrittori – tra cui Sciascia e Camilleri – e di storici dell’arte: non sempre i secondi sono stati i meno fantasiosi, a testimoniare del grande fascino di questa storia.
Lo spazio lasciato vuoto dal quadro di Henri Matisse La liseuse en blanc et jaune al museo Kunsthal di Rotterdam, Olanda. (AP Photo/Peter Dejong)