I manifesti razzisti a New York
Danno del "selvaggio" agli avversari di Israele e dopo molte contestazioni e proteste la società dei trasporti pubblici ha deciso di non rimuoverli
Da una decina di giorni sui muri della metropolitana di New York sono stati affissi manifesti particolarmente offensivi verso i musulmani. Lo slogan del manifesto – che ultimamente circola anche sugli autobus della città – dice: «In ogni guerra tra l’uomo civilizzato e il selvaggio, sostieni l’uomo civilizzato. Sostieni Israele. Combatti la jihad».
I manifesti sono stati prodotti dall’American Freedom Defense Initiative (AFDI), un gruppo di estrema destra fondato da Pamela Geller e Robert Spencer, due opinionisti e scrittori celebri negli Stati Uniti per le loro posizioni violentemente antimusulmane. I manifesti hanno scatenato molte proteste, tra cui quella della giornalista di origini egiziane Mona Eltahawy, arrestata per averne coperto uno con lo spray. Altri manifesti sono stati ricoperti o modificati e molti cittadini hanno chiesto alla MTA, l’Autorità dei trasporti pubblici di New York – che decide, tra le altre cose, della pubblicità affissa nella metro – di rimuoverli.
(L’arresto americano di Mona Eltahawy)
Emily Badger spiega sull’Atlantic che il caso è interessante perché vede scontrarsi quello che molti considerano incitazione all’odio con il principio di libertà di espressione sancito dal Primo emendamento della Costituzione americana (e caro a ogni democrazia). Badger sottolinea che godere dei vantaggi garantiti dalla libertà d’espressione implica che «ogni tanto può succedere che ti siedi in un vagone della metropolitana e ti trovi davanti un manifesto esasperante e fanatico». Richard Kaplar, vicepresidente del Media Institute – una fondazione di ricerca no profit specializzata nella comunicazione politica, nel rafforzamento della libertà di opinione e nella promozione del buon giornalismo – spiega che «le decisioni dei tribunali sono state decisamente chiare – in particolare la Corte Suprema – sulla disponibilità a tollerare un livello piuttosto alto di incitamento all’odio in vista di un bene più grande: quello di proteggere altri tipi di libertà di espressione». E infatti gli slogan antimusulmani si vedono ancora sugli autobus e sui vagoni della metro.
Badger ricostruisce il caso e racconta che inizialmente l’MTA aveva rifiutato la campagna, appellandosi a un regolamento adottato negli anni Novanta che impedisce immagini e slogan offensivi su base etnica, religiosa, legata al paese di origine, all’ascendenza, al sesso, l’età, la disabilità o l’orientamento sessuale. L’AFDI però ha fatto ricorso e un giudice federale gli ha dato ragione, spiegando che il regolamento dell’MTA proibisce di scrivere che i musulmani sono selvaggi ma non cose tipo “quelli del sud sono bigotti”, “le bionde sono sciocche” e “i grassi sono sciatti”, sostenendo che i manifesti in questione si riferissero ai palestinesi e non ai musulmani in generale, per via della loro religione.
In seguito alla sentenza però l’MTA si è riunita per decidere se accettare, d’ora in poi, soltanto messaggi pubblicitari evitando così controversie legate all’espressione di opinioni potenzialmente offensive per una parte della popolazione. Non è la prima volta per esempio che le agenzie concessionarie della pubblicità dei trasporti pubblici vengono citate in giudizio per aver rifiutato o accettato campagne controverse, per esempio a favore dell’uso dei contraccettivi per il controllo delle nascite o contro l’ineguaglianza sociale.
Alla fine l’MTA ha deciso di continuare a ospitare campagne di opinione, visto che altrimenti si tratterebbe di un grave danno alla promozione del dibattito su temi di interesse pubblico: la scelta comporterebbe anche la rinuncia a diffondere informazioni socialmente utili, per esempio sulle associazioni che aiutano gli adolescenti in difficoltà o sulle campagne di sanità pubblica. L’MTA ha comunque modificato il regolamento stabilendo che i manifesti che sostengono un’opinione debbano contenere un disclaimer che indica chi ha pagato per l’annuncio e specifica che le idee espresse non sono necessariamente sostenute dall’MTA. Inoltre l’agenzia si riserva il diritto di rifiutare – e di rimuovere – manifesti che potrebbero provocare proteste o che potrebbero turbare l’ordine pubblico.
Secondo Badger si tratta di una decisione rischiosa perché demanda al principio – a cui l’America si è sempre attenuta – di esprimere la propria opinione nonostante il rischio di offendere qualcuno. È un principio particolarmente importante in questo periodo storico, visto che un manifesto affisso sulla metro di New York può essere rapidamente diffuso in rete e provocare proteste in altre zone della città e del paese o del mondo, come è accaduto recentemente con il trailer dell’Innocenza dei musulmani, il film anti-islamico diffuso su You Tube che ha scatenato reazioni molto violente in gran parte del mondo musulmano. Il rischio è che un simile atteggiamento, anziché favorire il dialogo e la democrazia, porti a censurare la libertà di espressione per timore di ritorsioni, violenze e atti terroristici. «Ci saranno sempre annunci che offendono qualcuno da qualche parte», sostiene Kaplar, «non possiamo iniziare a vietare annunci a destra e a manca solo perché qualcuno ne sarà offeso. È semplicemente il prezzo che paghiamo per il Primo emendamento, che protegge l’espressione di tutte le opinioni».
(Tutti gli articoli del Post sull’Innocenza dei musulmani)
Anche in Italia è accaduto un caso simile, quando nel 2009 l’UAAR (un’associazione che promuove l’ateismo) aveva chiesto alla concessionaria pubblicitaria degli autobus di Genova di ospitare una campagna con lo slogan «La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona, è che non ne hai bisogno». La società rifiutò e l’UAAR ripiegò su una versione edulcorata, «La buona notizia è che in Italia ci sono milioni di atei. Quella ottima, è che credono nella libertà di espressione», che venne accettata. Lo slogan originario venne ripreso in manifesti affissi in alcune città italiane, tra cui Modena, Mestre, Pescara, provocando proteste, rimozioni e, in un caso, il sequestro da parte dell’autorità giudiziaria.
Foto: TIMOTHY A. CLARY/AFP/GettyImages