Le migliori undici canzoni dei Beach Boys
Scelte dal peraltro direttore del Post, nel suo libro "Playlist": oggi che compiono mezzo secolo
Il primo ottobre del 1962, esattamente cinquant’anni fa, uscì il primo disco dei Beach Boys, Surfin’ Safari. Per festeggiare l’avvenimento i membri superstiti della band si sono riuniti lo scorso aprile per esibirsi in un tour in quaranta tappe negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Giappone e in Europa. La momentanea pace nel gruppo, a quanto pare, è già finita, ma possiamo anche dirci che il repertorio non manca.
Queste sono le loro canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il suo libro Playlist:
The Beach Boys (1961-1996, Hawthorne, California)
Epica band dalla doppia fama. Simpatici ragazzotti indissolubilmente legati alla tavola da surf per la maggioranza della popolazione mondiale, geniali inventori e innovatori del pop per gli storici della musica. Di sicuro, se oggi leggete le recensioni delle riviste, vengono citati come ispirazione di un artista su due (per l’altro, dei due, si citano i Beatles).
Surfin’ safari
(Surfin’ safari, 1962)
Geografia del surf: Huntington, Malibu, Rincon, Cerro Azul, “from Hawaii to the shores of Peru”. Fu il loro primo numero uno in classifica. Grande arrangiamento, fino alla trovata del finale.
Surfin’ USA
(Surfin’ USA, 1963)
L’ispirazione musicale è quella di “Sweet little sixteen” di Chuck Berry. Il resto è proclamazione adolescenziale di rivoluzione soft: ce ne andiamo in vacanza a fare del surf, avvisate i professori. Le onde di tale intensa ideologia allagarono tutte le coste del mondo.
Fun fun fun
(Concert, 1964)
Lei si è fregata la macchina di papà raccontandogli che andava a studiare, ed è andata a spassarsela in giro, ma papà si è ammoscato e si è ripreso chiavi e macchina. E qui interviene il narratore, che le propone di spassarsela assieme. Il resto è collezionismo di suoni pop-rock, fino al fantastico e inatteso coretto di chiusura.
I get around
(All summer long, 1964)
“Uà-uà-uuuuuu”. Colpo di genio e di fantasia. Vien quasi da dire che non è così che si fa una canzone pop, perdiana! Un po’ d’ordine, una strofa e un ritornello come si deve, che diamine, e poi cosa sono tutti quegli inserti e quelle deviazioni, insomma! Coretto da antologia: “round round get around I get around…”.
Barbara Ann
(Beach Boys’ party!, 1965)
Piccolo divertissement diventato culto pop, e abusato in film, pubblicità e feste adolescenziali. Aveva già quattro anni quando fu ripresa dai Beach Boys, che la portarono nella storia, sghignazzandoci.
Help me Rhonda
(Summer days, and summer nights!!, 1965)
Brian Wilson avrebbe sbroccato, a un certo punto, e le leggende sui suoi tormenti psicologici e medici non si distinguono più dalla realtà. Qui già non si sentiva tanto bene, ma scriveva canzoni da dio come se niente fosse, anzi forse la sregolatezza aiutava il genio. Il concetto è allusivo: Rhonda dovrebbe dare una mano al protagonista che vuole dimenticare la ragazza che lo ha mollato.
California girls
(Summer days, and summer nights!!, 1965) Quella cosa che si sente nelle canzoni di una lunga fase dei Beach Boys, la chiamarono “wall of sound”: un sottofondo continuo e intenso di suoni e voci che sostiene tutta la canzone. Questa è una delle loro canzoni perfette, rilanciata vent’anni dopo da una divertente cover di David Lee Roth (nello stesso disco dove rifece formidabilmente anche “Just a gigolo”, più nota nella versione di Louis Prima).
Wouldn’t it be nice
(Pet sounds, 1966)
La prima traccia di un disco – Pet sounds – considerato uno dei più importanti della storia del rock. Dopo due minuti ci sono già abbastanza melodie per quattro canzoni. Rivoluzionaria anche nel testo, che dopo tutta l’epica del giovanilismo surfistico suggerisce invece come sarebbe bello essere già vecchi e passare giorni e notti assieme e tranquilli come fa tutto il mondo.
God only knows
(Pet sounds, 1966)
Un classico. Uno straclassico. “Dio solo sa cosa sarei senza di te”. Praticamente nient’altro. E in mezzo, frizzi, lazzi e ciliegine di arrangiamento. Paul McCartney disse una volta che era la sua canzone preferita, e David Bowie ne fece una notevole e tenebrosa cover.
Do it again
(Stack-o-tracks, 1968)
Anche la varietà diventa ripetitiva, se usa sempre gli stessi ingredienti. Invece il richiamo del surf, dopo che il successo li aveva portati altrove, si manifestò questa volta nella forma di questa trovata più rock, e con un suono epicamente conclusivo.
I can hear music
(20/20, 1969)
“I can hear music” l’aveva scritta Phil Spector, gigante e mito della produzione pop, poco prima di ritirarsi e dar vita a mille illazioni sul suo equilibrio. I Beach Boys la recuperarono dopo un’infruttuosa esecuzione delle Ronettes, e ne fecero una perfetta canzone Beach Boys. Ma il merito dell’attacco per37 fetto, del ritornello elementare, e del ponte a cappella, è di chi l’ha scritta.
Foto: Hulton Archive/Getty Images