Le Regioni degli scandali
Che cosa non va nel meccanismo con cui funzionano gli enti regionali, come riconoscono in questi giorni molti politici e commentatori
di Davide Maria De Luca
Un’opinione che ha trovato molto spazio sui giornali in questi giorni è che dietro i recenti scandali su come sono stati spesi i soldi delle regioni non ci sia soltanto il malcostume. Oltre a un problema di persone disoneste finite ai posti di comando, ci sarebbero precise cause nel “come” funzionano le regioni: e queste fornirebbero incentivi a spendere male il denaro pubblico.
Uno dei punti essenziali in questo ragionamento è che circa dieci anni fa una riforma della Costituzione dette autonomia di spesa alle regioni, senza però dare loro altrettanta libertà (e quindi responsabilità) di reperire le risorse necessarie per finanziare quelle spese.
(Tutte le inchieste sui consigli regionali)
L’attuale architettura delle regioni ha le sue radici nelle prime riforme degli anni ’70 e si è realizzata completamente nel 2001, quando venne riformato il Titolo V della Costituzione italiana. La riforma arrivò dopo anni e anni di analisi e discussioni sulla necessità di una modifica in senso più “federale” dello Stato italiano, venne approvata mentre la maggioranza parlamentare era dell’Ulivo e venne confermata con un referendum popolare nel novembre di quell’anno.
Con la modifica del Titolo V, le regioni ottennero tre cose: nuove competenze (la più importante fu la gestione della sanità) una forte autonomia di spesa, cioè poterono cominciare a decidere più o meno liberamente come spendere i propri soldi, e una forte autonomia organizzativa, per cui poterono decidere da sole quanti consiglieri avere, quanti assessori e come organizzarli.
L’idea alla base di questa modifica era avvicinare i cittadini ai centri decisionali dove venivano spesi i soldi delle loro imposte. Dall’introduzione della modifica, le spese delle regioni sono aumentate del 74% e buona parte di questi aumenti è stata causata dall’aumento delle competenze delle regioni. Dopo la modifica del Titolo V, però, le competenze delle regioni sono rimaste le stesse, ma la loro spese sono comunque aumentate del 23%: una grossa parte, come abbiamo scoperto nelle ultime settimane, è stata spesa in rimborsi, stipendi, ostriche e vacanze in Sardegna.
Questi soldi arrivano alle regioni principalmente tramite tre imposte: compartecipazione all’IVA, addizionale IRPEF e IRAP. Le prime due sono imposte raccolte dallo Stato, che poi ne versa parte nelle casse delle regioni, mentre la terza è un’imposta regionale. La caratteristica di tutte queste imposte è che o sono raccolte dallo stato (che decide anche “quante” raccoglierne), oppure, se sono raccolte dalle regioni, queste hanno un margine di manovra molto piccolo per decidere se far pagare di più o di meno ai cittadini (sull’IRAP, ad esempio, le regioni posso aumentare o diminuire dell’1% l’aliquota base).
Le regioni quindi non sono responsabilizzate e i cittadini non hanno una chiara idea di quanta parte delle loro tasse finisce a pagare l’inefficienza delle politiche regionali. Le imposte che vengono alzate per riparare ai buchi nei bilanci regionali – come ad esempio il buco nella sanità del Lazio – sono imposte statali ed aumentano per decisione del parlamento (che si prende anche tutte le critiche). Come ha sintetizzato qualche giorno fa il ministro per i rapporti con il Parlamento, Piero Giarda: «Spendere soldi che non si guadagnano è facile e divertente».
Alberto Bisin, professore di economia alla New York University e tra gli autori del blog economico NoisefromAmerika, spiega così questa situazione in un articolo pubblicato venerdì su Repubblica: un amministratore regionale potrebbe costruire ospedali in ogni paesino della sua regione (o in ogni paesino dove gli interessa prendere voti) fornendo così un servizio. Questo servizio, però, non viene pagato direttamente dai cittadini che usufruiscono di quel servizio. L’amministratore locale, quindi, non ha incentivi a costruire ospedali solo dove servono o a farli funzionare in maniera economicamente efficiente. Secondo Bisin si tratta di un sistema «abnormemente avulso da ogni più basilare analisi degli incentivi».
Bisin e altri giornalisti ed economisti come Oscar Giannino non sono stati gli unici a criticare la riforma del Titolo V. In un’intervista recente al Messaggero il segretario del PD, Pierluigi Bersani, ha dichiarato: «Abbiamo imbastito un’organizzazione dello Stato e un livello di autonomia delle Regioni che non ha contrappesi né razionalità». Anche il segretario della Lega, Roberto Maroni, ha dichiarato al Sole 24 Ore che il federalismo, senza «responsabilità», non può funzionare.