Rivalutare il sonnellino
Un articolo del New York Times che circola molto online mette in discussione alcune certezze sul nostro rapporto col sonno, a cominciare dalle famose otto ore
Nell’aprile dello scorso anno due articoli sul sonno, pubblicati rispettivamente dal Wall Street Journal e dal New York Times, aggiunsero nuove elementi all’eterno dibattito sul nostro modo di dormire e sulle soluzioni migliori per riposare efficacemente. In particolare, uno dei due articoli spiegava che con meno di otto ore di sonno al giorno molte persone rendono meno, spesso senza nemmeno accorgersene. Al dibattito sul sonno negli ultimi giorni si è aggiunto David K. Randall con un articolo pubblicato sulla Sunday Review del New York Times e che è diventato uno dei pezzi più condivisi sul sito del giornale. Il suo autore invita a ripensare il modo in cui dormiamo, smontando il dogma delle otto ore filate di sonno.
Randall è un giornalista di Reuters e di recente ha pubblicato il libro Dreamland: Adventures in the Strange Science of Sleep, dove racconta citando diverse ricerche scientifiche come reagisce il nostro organismo al sonno e quali particolari esigenze cerca di soddisfare. Sul Times spiega che circa 41 milioni di statunitensi dormono meno di sei ore al giorno, con evidenti conseguenze sulla loro resa durante le ore di lavoro. La miglior cosa da fare in questi casi, si dice, è andare a letto prima e trascorrere più tempo a letto, ma secondo diversi ricercatori potrebbe essere questa la radice del problema.
Invece di aiutarci a riposare di più, la tirannia delle otto ore filate rafforza una concezione limitata del sonno e di come dovremmo confrontarci con esso. Parte del tempo che trascorriamo girandoci e rigirandoci a letto potrebbe essere anche il risultato di un fraintendimento sul sonno e sulle necessità del nostro organismo: infatti né i nostri corpi né i nostri cervelli sono fatti per quel terzo di vita che trascorriamo a letto.
Randall spiega che l’idea stessa delle otto ore di fila di sonno è relativamente recente, e non riguarda nemmeno tutto il mondo. A seconda dei paesi, ci sono diverse soluzioni per il problema. In Cina, per esempio, si continua a fare un riposino di un’ora dopo pranzo, e il sonnellino durante la giornata è praticato in molti paesi dall’India alla Spagna. Il dogma delle otto ore di sonno fu messo in dubbio a partire dai primi anni Novanta, quando il docente del Virginia Tech A. Roger Ekirch iniziò a notare strani riferimenti al modo in cui si dormiva secoli fa. Trovò in opere letterarie e trattati scientifici diversi testi in cui si parla di “primo sonno” e di “secondo sonno”. In alcuni documenti si diceva che le ore più proficue erano proprio quelle tra i due momenti di sonno, sia per i lavori di concetto che per quelli manuali.
Più o meno nello stesso periodo in cui Ekirch approfondiva le sue conoscenze storiche sul sonno, il ricercatore Thomas A. Wehr del Mental Health di Bethesda (Maryland) condusse una serie di esperimenti per valutare i cicli sonno/veglia in assenza di stimoli dati dalla modernità, come la luce artificiale derivante dalle lampadine e dagli schermi di televisori e computer. Dopo qualche giorno di test, i volontari che partecipavano all’esperimento iniziarono a svegliarsi poco dopo la mezzanotte e a rimanere svegli per un paio d’ore prima di addormentarsi nuovamente. Senza stimoli artificiali, il loro organismo ricostruì sostanzialmente il meccanismo del primo e del secondo sonno identificato da Ekirch nelle sue ricerche storiche.
Liberi dai classici meccanismi della vita moderna, spiega Randall, i volontari iniziarono a vivere in modo diverso gli orari notturni. Dopo aver superato il luogo comune sulle ore filate di sonno, sfruttarono le ore di veglia notturne per mettere in ordine i loro pensieri, portarsi avanti con le cose da fare nella giornata in arrivo, o per fare l’amore col proprio partner.
Per arrivare a questo, però, occorre superare la classica concezione sulla necessità di dormire un unico blocco di ore durante la notte. E non è semplice, perché per la maggior parte di noi il fatto di svegliarsi nel mezzo della notte e non riuscire più a prendere sonno viene vissuto come un problema, come qualcosa che non va. Questa idea viene spesso rinforzata da medici ed esperti, che prescrivono rimedi come farmaci per dormire senza interruzioni. Si arriva così a un circolo vizioso in cui ci viene detto che dovremmo dormire un certo numero di ore di fila, non riusciamo a farlo ed entriamo in ansia per il timore di non essere sufficientemente riposati il giorno dopo. L’ansia porta a lunghi periodi di veglia e nei casi più gravi a forme più o meno pesanti di insonnia, che richiedono a quel punto l’utilizzo di pillole o altri rimedi per dormire. «Quando siamo svegli a letto e pensiamo alle ore di sonno che stiamo perdendo, riduciamo di fatto le possibilità di goderci un buon riposo notturno», scrive Randall.
Il fenomeno riduce anche le probabilità di avere momenti di sonno profondo, quelli che davvero contano per far riposare la mente. Randall cita diverse ricerche scientifiche che hanno dimostrato che in molti casi anche un solo riposino di 24 minuti aiuta ad aumentare le proprie capacità cognitive, ovvero la possibilità di avere idee migliori, essere più attenti e ricordare meglio le cose.
Secondo Robert Stickgold, docente di psichiatria alla Harvard Medical School (Massachusetts), il sonno – sonnellini compresi – consente al nostro cervello di fare ordine e di decidere quali informazioni mantenere e quali dimenticare. Questa teoria potrebbe spiegare perché i nostri sogni hanno spesso trame sconclusionate e con personaggi imprevedibili: il nostro cervello nei momenti di sonno profondo si dà da fare per trovare collegamenti tra le nuove cose che ha visto e appreso e quelle che si sono ormai fissate nella nostra memoria. Attraverso questo confronto determina che cosa è rilevante e che cosa non lo è per la nostra esperienza, eliminando le informazioni inutili o ridondanti. È un processo molto importante e contribuisce a renderci più attenti alle cose e a mettere insieme nuove idee, al risveglio.
Da diversi anni alcune aziende hanno iniziato a sperimentare soluzioni per adattare meglio gli orari di lavoro a quelli del funzionamento della nostra mente, sonno compreso. Google, per esempio, offre in buona parte delle proprie sedi aree relax dove è anche possibile schiacciare un pisolino per recuperare un po’ di energie. I benefici cognitivi derivanti da un sonnellino di alcune decine di minuti possono durare anche per tre ore dal risveglio, ma molto dipende dal soggetto e dalla quantità di tempo trascorsa a riposare. Se si eccede, però, si rischia l’effetto contrario e cioè di avere la mente annebbiata.
Secondo Randall per affrontare meglio il lavoro e gli altri impegni della vita, le nostre società dovrebbero rivedere il modo in cui hanno trattato il sonno nell’ultimo secolo. Liberandoci dal rigido schema delle ore di sonno filate solo di notte potremmo trarre importanti benefici, almeno fino alla prossima ricerca scientifica che dimostrerà il contrario.