Chi ama il calcio odia il Barcellona?
Michele Dalai su IL contro "lo spirito disneyano" di una squadra troppo perfettina e pettinata, "costruita in laboratorio"
Uno degli articoli del numero di IL più discussi online è stato scritto da Michele Dalai, editore e scrittore, ed è una critica appassionata e argomentata alla squadra di calcio del Barcellona, sicuramente quella ad aver ottenuto le maggiori vittorie negli ultimi dieci anni, sicuramente la più elogiata e celebrata e secondo alcuni anche una delle più forti – se non la più forte – di tutti i tempi, costruita su un modello che in molti in questi anni hanno cercato di imitare.
Tifano per una squadra il cui motto è Mes que un club. I sostenitori del Barcellona rivendicano così l’appartenenza a qualcosa di diverso e unico, come a sottolineare fin da subito, dalla stretta di mano, che se la loro è più di una squadra le altre non possono che essere solo squadre o anche qualcosa di meno. Sostenitori, soci, catalani.
Ma anche semplici simpatizzanti sparsi per i cinque continenti, allegri non tifosi che portano in spalla bimbi di 5 anni con la maglia di Messi e il sorriso timido di Iniesta. Il Barcellona di oggi viene da lontano. La stirpe di brevilinei innamorati della palla che ammalia il mondo e cambia le regole del gioco è solo l’ultima generazione di una storia calcisticamente antica, iniziata nel 1899 quando un uomo d’affari protestante, lo svizzero Joan Gamper decise di fondare la squadra insieme ad alcuni espatriati inglesi. Da allora il Barcellona è stato sempre e comunque forzato a essere mes que un club. La bandiera di un nazionalismo liberale, quello catalano. La bandiera di modernità, progresso e sviluppo industriale (catalano, come ovvio) contro la retriva borghesia imperiale castigliana. Lo sfogo morbido e orgoglioso dell’indipendentismo contro la repressione fascista del Generale Franco. Il Barcellona è stato vettore perfetto di sentimenti nobili e ha ispirato la meglio gioventù iberica, ha riformulato negli anni i canoni di stile e bellezza calcistica mutuandoli dagli olandesi ed è diventato lo sbocco obbligatorio del tifo progressista e il passatempo di scrittori e artisti.
Il museo del Barcellona ospita quadri di Dalì e Mirò, si dice addirittura che i suoi colori sociali siano stati mutuati dal tricolore della Rivoluzione francese. Si dice e se non è vero poco importa, è comunque una leggenda metropolitana da alimentare come tutte le agiografie non ufficiali dei sette nani del Barcellona. Come spiega bene Franklin Foer nel brillante saggio How soccer explains the world: «Quando si è orientati verso una politica liberal e un’estetica yuppie, non è facile trovare un angolo del firmamento calcistico in cui sentirsi a casa».
E la risposta a tutte le ricerche e le domande, alla sete di correttezza politica che per alcuni (in genere quelli che non guardano le partite) è l’unico requisito necessario al tifo, è solo una. Il Barcellona. La squadra che può privarsi di campioni eccezionali se non li ritiene funzionali al suo stile di gioco, la squadra che non ha gruppi di tifosi organizzati e il cui stadio, il monumentale Camp Nou, è pieno di famiglie e ha uno dei tassi di presenze femminili più alti del mondo. Come si può non amare il Barcellona che porta l’Unicef sulle sue maglie? Come è possibile non innamorarsi di Messi, il campione educato e silenzioso, forse anche timido, che segna gol meravigliosi e vince tutti i trofei individuali dell’universo e li dedica alla squadra?
Si può. Io odio il Barcellona, sempre che l’intensità dell’odio si possa applicare alla più seria e drammatica delle cose poco serie, il calcio.
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foto: RAFA RIVAS/AFP/GettyImages