Che cosa non ha funzionato a Bengasi
Gli errori e le mancanze che secondo un'inchiesta del Wall Street Journal contribuirono al disastro al consolato statunitense sotto attacco in Libia
Con un lungo articolo pubblicato oggi in prima pagina, il Wall Street Journal spiega che l’attacco al consolato statunitense di Bengasi dell’11 settembre scorso è stato preceduto da «una serie di mancanze e valutazioni errate nella sicurezza, combinate a decisioni prese nella confusione degli scontri, che fanno nascere il dubbio che la portata della tragedia potesse essere ridotta».
Il primo punto riguarda un errore di previsione: quello secondo cui le proteste nel vicino Egitto – a causa del film “satirico” su Maometto e dello spazio che aveva avuto sui media del paese – non sarebbero mai arrivate in Libia. Mentre in Egitto vennero ordinate misure precauzionali ulteriori e parte del personale diplomatico venne rimpatriato, nessuna allerta simile venne emessa per la Libia (né per altri paesi della zona).
In secondo luogo, le autorità degli Stati Uniti non considerarono seriamente di inviare rinforzi militari a Bengasi, mentre era in corso l’attacco, allertando invece solo la sicurezza libica. I marines furono inviati nella zona solo dopo che l’ambasciatore era stato ucciso. Secondo i pareri raccolti dal WSJ di alcuni funzionari del Dipartimento di Stato, il ministero della Difesa (con sede al Pentagono) stava aspettando ordini o istruzioni dal Dipartimento di Stato, ma questi dubitava che eventuali rinforzi sarebbero arrivati in tempo.
Altri problemi furono causati dalla segretezza che circondava l’esistenza di una safe house, una base d’appoggio nei pressi dell’ambasciata che era usata fin dai tempi della rivoluzione dello scorso anno. Anche mentre questa era sotto attacco, gli Stati Uniti non ritennero di doverne indicare l’esistenza e l’esatta posizione alle forze di sicurezza libiche. Al momento non si sa se gli assalitori sapessero già della sua esistenza o se l’abbiano in seguito scoperta semplicemente seguendo il personale che evacuava il consolato.
Ma il Wall Street Journal, basandosi su interviste a oltre una dozzina di funzionari statunitensi e libici, sembra suggerire che l’errore principale fu nella mancata previsione degli attacchi che portarono alla morte di Stevens e altri tre cittadini americani, nonostante nei mesi precedenti ci fossero stati diversi segnali preoccupanti.
L’ambasciatore Stevens e Sean Smith, un funzionario dell’ambasciata nel settore dell’informazione, morirono nel primo attacco al consolato, mentre gli ex membri delle forze speciali della Marina Glen Doherty e Tyrone Woods morirono più tardi, nell’attacco alla safe house che si trova a circa un chilometro di distanza.
Lo stesso atteggiamento di Stevens contribuì probabilmente a mantenere un profilo più basso per quanto riguarda gli apparati di sicurezza: l’ambasciatore, che era rimasto a Bengasi per mesi collaborando con i ribelli durante la rivolta contro Gheddafi, avrebbe personalmente consigliato di non mantenere marines pesantemente armati fuori dall’ambasciata di Tripoli. Quanto al consolato di Bengasi, in cui Stevens si era spostato per motivi che sono rimasti ufficialmente sconosciuti per oltre una settimana (l’ambasciatore non comunica a Washington tutti i suoi spostamenti nel paese in cui risiede, dicono funzionari del Dipartimento di Stato) il complesso circondato da mura era preparato soprattutto per un tipo di attacchi particolare, quello ritenuto più probabile: un attacco isolato usando un lanciarazzi o una bomba esplosiva artigianale (IED – improvised explosive device).
E veniamo ai diversi indizi che erano arrivati da Bengasi nei mesi precedenti, almeno a partire dalla primavera scorsa, scrive il WSJ. Il 10 aprile fu lanciata una bomba contro il convoglio dell’inviato delle Nazioni Unite, Ian Martin. Il 22 maggio, gli uffici della Croce Rossa furono colpiti con una granata lanciata con un lanciarazzi. Infine, il 6 giugno un IED esplose vicino al muro di cinta del consolato.
Dopo quest’ultimo episodio, gli Stati Uniti chiesero alla Libia di aumentare la sicurezza intorno alle sedi diplomatiche americane, ma secondo quanto dicono funzionari libici la richiesta fu formulata solo per un periodo di una settimana. Dopo di che, i livelli di sicurezza garantiti dalla Libia tornarono quelli precedenti, ovvero quattro guardie armate fuori dal perimetro del consolato e quattro guardie non armate all’interno per controllare l’identità dei visitatori. Gli attacchi a Bengasi, intanto, continuarono: in particolare, l’11 giugno una granata da lanciarazzi colpì il convoglio dell’ambasciatore britannico in Libia, ferendo due guardie del corpo. Il Regno Unito aveva deciso di chiudere il suo consolato nella città.
Mentre l’anniversario dell’11 settembre, ritenuto sensibile per via degli attentati, si avvicinava, il personale diplomatico fu informato dei rischi. Gli fu comunicato che erano minori rispetto allo scorso anno, il decimo anniversario e il primo dopo la morte di bin Laden. Si concluse che non c’erano specifiche minacce di attacco, né particolari carenze nella sicurezza delle strutture diplomatiche americane in Libia.
L’attacco
Ma gli analisti e l’antiterrorismo, a Washington, non avevano probabilmente il polso della situazione, se è vero, come dice il personale dell’ambasciata del Cairo, che furono loro ad accorgersi autonomamente dell’inizio delle proteste per il film su Maometto, perché tenevano d’occhio i social media egiziani. L’avvertimento dei servizi segreti che le proteste sarebbero potute diventare violente arrivò all’ambasciata del Cairo il 10 settembre, ma era un avviso limitato a quel paese.
Il consolato di Bengasi fu attaccato intorno alle nove e trenta di sera dell’11 settembre. Tutto il personale di difesa dotato di armi era costituito dai quattro uomini delle forze di sicurezza libiche, all’esterno, e da cinque uomini armati del servizio di sicurezza del Dipartimento di Stato – responsabile della difesa del corpo diplomatico – all’interno. Circa 15 minuti dopo l’inizio degli spari fuori dal consolato, venne dato fuoco all’edificio principale.
Stevens, Smith e un agente di sicurezza si rifugiarono prima in una stanza, ma questa venne presto invasa dal fumo – un’altra critica che muove il WSJ sulla base delle sue ricerche è che mancasse l’equipaggiamento antincendio – e i tre decisero di uscire rompendo una finestra. Più o meno in questo stesso momento, a Washington, fu informato anche il presidente Obama, che stava per incontrarsi con il ministro della Difesa Leon Panetta e capo dell’esercito americano, il generale Martin Dempsey. L’ipotesi di intervenire militarmente venne scartata perché avrebbe costituito una violazione della sovranità libica e dunque avrebbe complicato la situazione.
La Libia mandò una ventina di uomini sul posto, che arrivarono circa 30 minuti dopo l’inizio dei combattimenti. A questo punto, manca una ricostruzione precisa di che cosa sia avvenuto all’ambasciatore, che ricomparve, ormai gravemente ferito, quando fu accompagnato da militari libici al Centro Medico di Bengasi. Nel frattempo, il personale del consolato senza l’ambasciatore era stato evacuato nella safe house, che venne attaccata a sua volta intorno all’una e trenta di notte, quando sulla scena arrivarono i rinforzi di personale di sicurezza americano proveniente da Tripoli.
Questo secondo assalto, con lanciarazzi e mortai, fu portato avanti con più organizzazione e armi rispetto al primo, ed è soprattutto per questo che si sospetta un coinvolgimento di militanti con legami con al-Qaida.
Secondo alcuni pareri raccolti dal WSJ all’interno dell’amministrazione statunitense, si sarebbero potuti mandare rapidamente a Bengasi alcuni dei militari americani presenti nella base di Sigonella, in Sicilia, o un gruppo di marines tra quelli di stanza a Rota, in Spagna. A queste ipotesi ha risposto con una certa insofferenza un funzionario del Dipartimento di Stato, scartandole come irrealistiche: «Non sarebbero arrivati in due ore, né in quattro, né in sei. Non ci sono soldati che stanno seduti in una stanza vicino a un aeroplano, con un pilota nella stanza accanto che beve caffè».
Foto: STR/AFP/GettyImages