Un po’ di pensieri su una foto
Quella dell'ambasciatore Stevens ucciso a Bengasi, che ha tormentato molti giornali
di Luca Sofri
Martedì mattina ero in treno che mi picchiavo con il Wi-Fi del Frecciarossa quando mi ha chiamato Francesco Costa dal Post: capita di rado, perché quasi sempre Francesco sa prendere le decisioni giuste anche senza di me, se io non ci sono. Quindi ho capito che il dubbio era su una cosa delicata, e lo era: «Stamattina Getty aveva pubblicato delle foto dell’ambasciatore Stevens, forse morto o forse moribondo, senza sapere che era lui, e le didascalie parlano di un uomo ferito nell’attacco all’ambasciata; ma abbiamo controllato ed è lui, cosa facciamo? Le mettiamo?». Stevens – si sapeva da poco – era una delle persone uccise nell’attacco all’ambasciata americana a Bengasi.
Ho chiesto a Francesco cosa pensasse delle foto, ma non si capisce una foto a parole, se no non sarebbe una foto, e così gli ho detto di passarmele su Skype. Ho scollegato rassegnato il Wifi del Frecciarossa e col tethering dell’iPhone l’ho scaricata: ci ho pensato qualche secondo e gli ho risposto su Skype così.
[12/09/12 17:11:00] luca: direi di no, forse postit
“Post-it”, come sapete è la sezione di segnalazioni e link del Post in alto a destra in homepage: ho provato a suggerire a Francesco un testo che indicasse ai lettori che c’era quella foto ma che era una foto “forte”, in modo da indurre a un momento di riflessione prima di decidere se cliccare o no: ma comunque la scrivessi, ne usciva una cosa tentatrice, invitante a curiosità incontrollabili, oppure inadeguata nel tono, oppure semplicemente stupida (“ai lettori più sensibili”, come fossero menomati).
Francesco ha interpretato questa difficoltà, e ha concluso di non farne niente.
Gli stessi pensieri – nelle stesse ore – sono circolati nelle redazioni di mezzo mondo, immagino. Ho visto che i giornali italiani hanno scelto nella quasi totalità di pubblicare le foto, sia sul web che sulla carta (alcuni – Repubblica, il Messaggero, il Mattino – anche in prima pagina): ma ci avranno pensato, prima di decidere. Il Public Editor del New York Times aveva raccolto mercoledì i dubbi di molti lettori per la pubblicazione di una delle foto sul sito e ne aveva scritto: concludendo che la scelta fosse molto difficile e che ci siano argomenti buoni per pubblicarla o non pubblicarla. Ma in conclusione, dice che è legittimo pubblicarla con l’argomento che se si pubblicano foto di morti siriani, iracheni o di altri popoli in guerre e contesti violenti, le stesse ragioni devono valere per le foto degli americani, per quanto generino nei lettori americani emozioni diverse. E poi dice anche che però si augura che il New York Times non la metta in prima pagina sul giornale di carta (e infatti non l’ha messa). Il giorno dopo, il Times ha anche spiegato che il Dipartimento di Stato aveva chiesto di rimuovere la foto, ma al giornale non avevano accolto la richiesta.
Scelte di questo genere non sono mai facili, e questa è stata più difficile di molte. Ma questo fatto caotico e violento è stato una notizia molto rilevante, e crediamo che questa foto aiuti a rendere la situazione ai lettori in un modo efficace. Su questa base, pensiamo che la foto fosse una notizia e importante per il nostro racconto. Abbiamo comunque cercato di evitare che la foto fosse presentata in un modo sensazionalistico o insensibile.
Giovedì sera Arianna Ciccone ha chiesto su Twitter perché in Italia non se ne discutesse, come avveniva in America. E malgrado io sia stato dapprima tentato dal malevolo e sbrigativo pensiero che non se ne discuta per le ragioni generali che spiegano le peggiori derive del giornalismo italiano, ho provato a riflettere di più sulla scelta che avevamo fatto, paragonandola a quella del New York Times, e a quella delle prime pagine italiane.
Io credo non ci siano in cose come questa verità esatte. Non esiste una cosa definitivamente giusta. Mescolandosi i criteri della completezza dell’informazione, quello della sensibilità di alcuni lettori, e quello di ciò che tu pensi giusto, non si può trovare una sintesi corretta: è come mele e pere, e arance. Finisce che la decisione migliore che puoi prendere è quella che ti fa sentire più sincero, e che ti fa sentire che non te la stai raccontando quando rispondi a queste domande.
1. Quelle foto, raccontano qualcosa in più di quella notizia, di quella storia, e aiutano a conoscerla e capirla meglio? La risposta è sì per ogni foto, da una parte: ma lo è in un modo proprio, per queste. Non “cambia” la comprensione della storia in un modo che saresti certo che debbano essere viste, ma di certo aggiunge qualcosa in più alla comprensione della storia, a figurarsi scena ed eventi. Io questo credo, d’accordo col Times, senza però raccontarmi che “vadano viste”, che non è una cosa che penso.
2. Quelle foto, possono addolorare dei lettori al punto di tenerne conto e risparmiare loro questo dolore? Non lo so: può darsi, ma non in una misura rilevante come se i nostri fossero lettori americani, potenzialmente più familiari o vicini a quella persona.
3. Quelle foto possono generare proteste o indignazioni in lettori che trovino poco rispettosa la loro pubblicazione, anche se non ne sono personalmente toccati? È un distinguo dal punto 2 sottile, su cui non so se riesco a essere chiaro. Ma credo ci siano persone che vengano urtate non dal contenuto delle immagini, ma dal fatto che quelle immagini siano pubblicate. Rispetto i fastidi di ognuno e non li giudico, ma questa è una sensibilità che ritengo degna di una considerazione più piccola.
4. Ultima, ma più rilevante di quanto si sia disposti a discutere. Quelle foto, sto scegliendo di pubblicarle perché – forse in qualche angolo inconscio – spero attrarranno molti lettori? Oppure: quelle foto, sto scegliendo di non pubblicarle perché – forse in qualche angolo inconscio – temo attrarranno molti lettori? Anche qui, spero di spiegarmi: credo che capiti a volte al Post che ci sia una sorta di autocensura indotta da un timore delle tentazioni che vediamo travolgere molti altri siti di news.
Ecco, se provo a essere sincero con me stesso e con voi, io dico che forse queste domande mi avrebbero indotto a pubblicare una di quelle foto in una pagina separata, con un link nell’articolo che spiegasse di cosa si trattava. Ma quando abbiamo invece concluso per non farlo non mi sono fatto l’ultima, delle domande, a cui avrei probabilmente risposto che sì, non la pubblichiamo perché gli standard di selezione e responsabilità di chi fa queste scelte in Italia sono così saltati, che a volte è come giocare in un campo con le buche profonde un metro. Finisce che ti guardi sempre davanti e a volte ti fermi anche se la buca non c’è, per prudenza. A volte ti perdi il passaggio buono, a volte eviti il fuorigioco. Non fai sempre la scelta giusta: ma come ho detto, spesso non c’è, la scelta giusta.