Carter e la crisi degli ostaggi
La destra americana sta cercando di paragonare quanto accaduto a Bengasi con uno dei più gravi fallimenti diplomatici della storia degli Stati Uniti, nel 1979
Molti commentatori americani di orientamento conservatore hanno criticato Barack Obama per una dichiarazione rilasciata dall’ambasciata del Cairo in cui veniva condannato “chi abusa del diritto universale alla libertà di parola per ferire i sentimenti religiosi del prossimo”, un riferimento allo sgangherato film che ha causato proteste violente in Yemen, in Marocco e soprattutto in Libia e in Egitto. Secondo i critici, Barack Obama avrebbe dimostrato debolezza e poca fermezza, e non ha condannato con la dovuta forza le violenze: un atteggiamento che molti di loro hanno paragonato a quello di Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi iraniana, nel 1979.
L’interpretazione ha due evidenti forzature. La prima è identificare le dichiarazioni dell’ambasciata del Cairo con quelle di Obama – mentre la sua amministrazione si è affrettata a puntualizzare che le due posizioni non coincidevano – e la seconda viene dal fatto che, cronologia alla mano, l’ambasciata ha diffuso quel comunicato prima che avvenissero gli attacchi alle sedi diplomatiche di Bengasi e del Cairo. Nonostante questo, alcuni conservatori non hanno resistito al paragone con un episodio che è solitamente ricordato come il peggior esempio di debolezza diplomatica dimostrata da un presidente.
La crisi degli ostaggi iniziò il 4 novembre 1979, quando alcune centinaia di studenti islamici e attivisti attaccarono l’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran, prendendo possesso dell’edificio con all’interno una sessantina di cittadini statunitensi che ci lavoravano. Il contesto era il pesante antiamericanismo presente in Iran durante la rivoluzione islamica iniziata alcuni mesi prima, con la fuga dello Scià dal paese nel gennaio di quell’anno. Il governo autoritario dello Scià era iniziato grazie a un colpo di stato organizzato dalla CIA nel 1953, che rovesciò il governo eletto del primo ministro Mohammad Mosaddegh. Le manifestazioni antiamericane esplosero quando allo Scià venne permesso l’ingresso negli Stati Uniti per essere curato da un grave linfoma, nell’ottobre del 1979, decisione presa da Carter dopo molte incertezze e, secondo la sua ricostruzione, per ragioni principalmente «umanitarie» e non politiche.
L’attacco all’ambasciata iniziò una grave crisi diplomatica che diede grandi difficoltà alla presidenza Carter e compromise definitivamente i rapporti tra Iran e Stati Uniti. Uno storico ha scritto che la crisi “ha avuto la maggior copertura sulla televisione e la stampa rispetto a qualsiasi altro evento dalla Seconda guerra mondiale”. Un programma televisivo che esiste tuttora sulla rete ABC, Nightline, venne creato unicamente per discutere della crisi, parlando per settimane dei fallimenti dell’amministrazione Carter nel risolvere la situazione. La liberazione degli ostaggi – ridotti a 52 – avvenne solo 444 giorni dopo, al termine di lunghi negoziati: il 20 gennaio 1981, nelle ore in cui Reagan giurava come nuovo presidente.
La Jimmy Carter Library riassume l’accaduto scrivendo che “il presidente Carter si dedicò ad assicurare un ritorno sicuro per gli ostaggi, mentre proteggeva gli interessi e il prestigio dell’America. Seguì una politica di moderazione che diede più valore alle vite degli ostaggi, piuttosto che nel potere di rappresaglia americano o nella protezione del suo stesso futuro politico”. Questa breve interpretazione della crisi degli ostaggi iraniana, un po’ difensiva, è giustificata dalle accuse che vennero rivolte al presidente Carter per come gestì la situazione.
Nelle elezioni presidenziali del 1980, il comportamento di Carter fu decisivo nella sua clamorosa sconfitta a favore di Ronald Reagan, una delle più nette mai subite da un presidente uscente. Negli anni successivi Carter riconquistò popolarità per le sue attività umanitarie: nella percezione comune dell’opinione pubblica americana, però, è ricordato come una persona buona e onesta ma troppo debole e indecisa per fare il presidente (la cosa è evidente, ad esempio, anche dalle molte volte in cui compare Carter nei Simpson). A questo contribuì non solo la crisi degli ostaggi ma anche il cosiddetto malaise speech, il “discorso del malessere”, il più importante della sua presidenza, nel quale disse che gli americani attraversavano una “crisi di fiducia” a causa della crisi energetica: fu giudicato pessimista e frutto dei problemi del suo governo.
Ma come reagì Jimmy Carter alla crisi degli ostaggi? Il presidente aveva gestito male la situazione anche durante i mesi precedenti, quando non si era saputo decidere tra la linea dura del suo consigliere per la sicurezza Zbigniew Brzezinski, che avrebbe appoggiato una repressione brutale da parte dello Scià, e invece l’approccio più cauto che avrebbe cercato contatti con parti dell’opposizione islamista per cercare di facilitare la transizione.
Quando gli ostaggi vennero rapiti, Carter iniziò a vivere la situazione in modo molto personale e travagliato, non riuscendo a prendere decisioni nette e uscendo il meno possibile dalla Casa Bianca, evidentemente schiacciato dal peso della responsabilità. Lui stesso ha ricordato nelle sue memorie che la liberazione degli ostaggi era diventata per lui un’ossessione. Nelle prime settimane, però, Carter prese unicamente la strada delle sanzioni economiche (una settimana dopo il sequestro annunciò l’embargo del petrolio iraniano) rifiutando da subito un’operazione militare, che valutò troppo rischiosa. Le relazioni diplomatiche con l’Iran, in cui si stava consolidando il potere dell’ayatollah Khomeini, furono interrotte solo nell’aprile del 1980.
In quel mese, Carter autorizzò per la prima volta un’azione militare per provare a liberare gli ostaggi dall’ambasciata, mentre i negoziati si erano protratti per mesi senza portare a nulla: ma l’operazione, in preparazione da mesi, fu un completo disastro. I militari facevano base nel deserto iraniano, fatto già molto rischioso: poi alcuni problemi tecnici impedirono ad alcuni elicotteri di arrivare al punto di raccolta e la missione venne annullata con l’approvazione di Carter. Mentre i militari stavano lasciando l’Iran, un elicottero si schiantò al decollo contro un aereo da trasporto, causando la morte di otto soldati.
Conseguenza del fallimento, oltre a un infuocato dibattito negli Stati Uniti, furono trasmissioni trionfali della televisione iraniana e la dispersione degli ostaggi per tutto il paese, rendendo una seconda missione di salvataggio impossibile. L’opinione pubblica aveva ancora molto vivo il ricordo della sconfitta del Vietnam: Carter perse 20 punti di gradimento nei sondaggi nell’arco di pochi giorni.
Per altri mesi non successe sostanzialmente nulla, anche se Carter si sforzò fino all’ultimo giorno in carica di ottenere la liberazione attraverso i negoziati, continuando a seguire la politica che lui stesso definì «cauta e prudente». Tutti i tentativi fallirono, fino a quando ci fu una svolta indipendente da quegli sforzi e decisiva per la risoluzione della crisi. L’Iran e l’Iraq entrarono in guerra nel settembre del 1980, e il governo iraniano diventò improvvisamente molto più interessato ai miliardi di dollari bloccati dagli Stati Uniti in diversi conti bancari intorno al mondo. Nel frattempo lo Scià era morto nel luglio del 1980, negli Stati Uniti, e così venne a cadere la possibilità di soddisfare la richiesta iraniana che l’ex capo di stato venisse rimpatriato.
Ma anche questa fase di trattative si protrasse con lentezze esasperanti: gli iraniani si rifiutavano di parlare direttamente con americani, e certo non con il presidente. Per cui tutto dovette essere fatto con la mediazione dell’Algeria, con una lenta serie di traduzioni dal persiano degli iraniani al francese degli algerini all’inglese degli americani. Ogni messaggio doveva essere tradotto due volte e percorrere mezzo mondo. Alla fine gli Stati Uniti dovettero acconsentire a sbloccare molte proprietà iraniane e avviare lunghe discussioni tecniche con le banche americane ed europee per permetterlo, la condizione posta dall’Iran per il rilascio degli ostaggi. L’annuncio di un accordo venne fatto da Carter poco prima delle cinque del mattino del 19 gennaio 1981.
Fino agli ultimi minuti disponibili prima dell’arrivo dei coniugi Reagan, la mattina di martedì 20 gennaio 1981, Carter rimase con i suoi collaboratori a lavorare per la liberazione degli ostaggi, aspettando le notizie che ricostruivano i noiosi percorsi del denaro con contrattempi tragicomici, come il fatto che la Federal Reserve di New York non avesse a disposizione abbastanza soldi. Era necessario concludere prima del giuramento di Reagan, perché altrimenti i responsabili della trattativa sarebbero cambiati e tutto sarebbe dovuto ricominciare da capo. Ma Carter lasciò il suo studio per andare alla cerimonia senza la conferma finale che i due aerei con piloti algerini e gli ostaggi a bordo erano partiti da Teheran, cosa che gli venne notificata da un agente dei servizi segreti solo alle 12.33, dopo il giuramento di Reagan. Per un ultimo colpo di sfortuna, quindi, fu il nuovo presidente, in carica da poche ore, a dare agli Stati Uniti la notizia che gli ostaggi erano liberi.
Foto: AP Photo/Dennis Cook