Il numero chiuso fa bene a tutti
Giovanni Sabbatucci si occupa sul Messaggero della polemica sui test di ammissione, chiedendosi perché non si possa "lasciare l’università a quelli che possono e che vogliono studiare sul serio"
Lo storico e docente universitario Giovanni Sabbatucci interviene sul Messaggero di oggi dopo le proteste e le polemiche di questi giorni contro il numero chiuso e i test di ammissione ad alcune facoltà universitarie. Alcuni giornali hanno parlato di “trappole” e si sono schierati più o meno apertamente contro il sistema di selezione, ritenuto poco adeguato specialmente in alcuni ambiti accademici come medicina. Chi difende i test per il numero chiuso sostiene, al contrario, che gli esami servono per identificare le persone più adatte per seguire determinati corsi di laurea e non per selezionare già chi sarà più adatto alla professione.
Secondo Sabatucci, il basso numero dei laureati in Italia non dipende dal basso numero delle iscrizioni (o dei posti messi a disposizione), ma dall’alto tasso di “mortalità universitaria”. Contro ogni denuncia di violazione del diritto allo studio, sarebbe dunque per lui più sensato “lasciare l’università a quelli che possono e che vogliono studiare sul serio”.
Gli studenti che in questi giorni si mobilitano, peraltro civilmente, contro i test di ammissione ad alcune facoltà universitarie motivano la loro protesta con due argomenti tra loro molto diversi e non facilmente conciliabili. Il primo è di principio e riguarda il diritto allo studio garantito dalla Costituzione, che verrebbe negato dall’applicazione del numero chiuso. Il secondo è di merito e si riferisce al livello di difficoltà o alla congruità dei quesiti sottoposti ai candidati.
Su questo punto ogni contestazione è ovviamente lecita e può essere di qualche utilità. Giusto denunciare gli errori, se ve ne sono, e discutere sui criteri. Purché si tenga presente che un test di ammissione a un corso universitario non può vertere sullo specifico delle materie che poi in quel corso verranno insegnate (e che il candidato ha tutto il diritto di non conoscere, soprattutto se non fanno parte del bagaglio scolastico), ma deve stabilire l’idoneità dello studente ad affrontare quel tipo di studi: dunque valutarne la preparazione di base (un compito cui la scuola superiore troppo spesso abdica, viste le altissime percentuali dei promossi alla maturità), oltre alla capacità di ragionare e di dare risposte in tempi rapidi.
Operazione quanto mai delicata e inevitabilmente soggetta a errori, per quanto sofisticate possano essere le tecniche di elaborazione e valutazione dei test. Ma un vaglio basato sul merito, per quanto imperfetto, è comunque preferibile a una selezione dettata dal caso o, peggio, dal privilegio economico. Sempreché, naturalmente, si convenga sulla necessità di un vaglio. E qui veniamo alla questione di principio, quella del diritto allo studio, sollevata alquanto impropriamente.
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