È finita la delocalizzazione?
Non ancora, ma dalla Philips a Google ci sono diverse storie che raccontano una tendenza a riportare la produzione in Occidente
di Davide Maria De Luca
Una ricerca del Massachusetts Institute of Technology (MIT) ha mostrato che il 14% delle imprese americane oggetto dell’indagine stanno progettando di riportare parte o tutta la loro produzione manifatturiera negli Stati Uniti. Allo stesso risultato è arrivata un’altra ricerca, questa volta del Boston Consulting Group, secondo cui un terzo di tutte le compagnie americane con un fatturato superiore al miliardo di dollari sta pensando di riportare una parte delle loro attività di manifattura negli Stati Uniti.
Diverse aziende negli ultimi anni hanno già compiuto questo passo. La Ford, ad esempio, ha recentemente riportato circa 2.000 posti di lavoro negli Stati Uniti. Google ha annunciato quest’anno che il Nexus Q, un lettore di musica e video, sarà prodotto negli Stati Uniti, mentre piani simili sono stati messi in atto negli ultimi due anni da aziende come General Electric e Caterpillar.
In altre parole sembra che la delocalizzazione, quel fenomeno per cui produzioni manifatturiere che richiedono una forza lavoro poco specializzata si trasferiscono in paesi dove il lavoro costa poco (quello che è accaduto ad esempio all’Omsa in Italia), stia cominciando, lentamente, a invertirsi. Le cause sembrano essere numerose e piuttosto complesse: si tratta delle proteste in Cina, dell’aumento nel prezzo dei carburanti e dei progressi nella robotica.
Le notizie degli scioperi e delle proteste operaie in Cina sono arrivate in Europa soltanto quando hanno riguardato FoxConn, principalmente perchè FoxConn produce gli iPad e quindi è possibile ricollegare nella mente del pubblico l’operaio cinese in sciopero con un oggetto che tutti conoscono. La realtà, però, è che le proteste dei lavoratori in Cina sono frequenti, spesso violente e sopratutto in rapida crescita. In parte, almeno, queste proteste sembrano avere successo, come si nota da un paio d’anni: i salari degli operai cinesi stanno aumentando rendendo così sempre meno conveniente produrre in Cina.
In questi ultimi anni l’aumento della domanda per i combustibili (dietro alla quale, come al solito, c’è la Cina) ha causato un altro effetto: il costo per trasportare un container da un lato all’altro del mondo è cresciuto. Ad esempio, spedire un container di 40 piedi da Los Angeles a Hong Kong oggi costa 2.380 dollari, il 46% in più rispetto all’anno scorso. Spedire un container grande la metà sulla rotta Europa-Asia costa oggi più di 1.800 dollari, il doppio di un anno fa. Avere la produzione di base in Cina significa dover affrontare questa spesa sia per inviare sul posto le componenti, sia per ricevere il prodotto finito.
Aumenti salariali per gli operai cinesi e container trasportati a maggior prezzo sono solo una parte della storia: nonostante tutto, la manifattura in Cina è ancora molto economica. A questo punto entra in gioco una fabbrica della Philips. In questa fabbrica sulla costa cinese, centinaia di operai montano a mano rasoi elettrici. Un’altra fabbrica, sempre della Philips, ma in Olanda, ha dei costi tutto sommato comparabili con la prima: ci lavorano un decimo degli operai cinesi, aiutati però da 128 robot che eseguono svariate operazioni di precisione (e non una soltanto, come i classici robot delle fabbriche di auto), lavorano 365 giorni l’anno e non chiedono pause, nemmeno per il caffé.
Quello della Philips è un approccio radicalmente diverso da quello di Apple e di FoxConn: da un lato milioni (letteralmente) di operai poco specializzati e pagati e dall’altro poche macchine moderne ed efficienti, assistite da tecnici preparati e ben pagati. Niente di nuovo, sembrerebbe, visto che l’automatizzazione è presente nell’industria da qualche decennio, la novità è che ci stiamo avvicinando rapidamente al “price point“, il momento in cui un sofisticatissimo e costoso robot e il suo preparatissimo tecnico costeranno meno del più economico gruppo di operai che può produrre la stessa quantità di beni.
La robotizzazione pone delle domande su quanti posti di lavoro potrebbe creare il ritorno della manifattura negli Stati Uniti. Gli autori della ricerca del MIT avvisano infatti che rischiano di essere pochi e comunque a bassa specializzazione, quindi poco pagati. Se le fabbriche che produrranno il Nexus Q di Google saranno simili alle fabbriche Philips allora saranno veramente molto pochi (ma almeno pagati bene). La chiave quindi sembrerebbe essere una forza lavoro di qualità sempre migliore e un miglioramento continuo delle tecnologie in fabbrica, attività che richiedono grossi investimenti da parte delle imprese.
foto: DAMIEN MEYER/AFP/Getty Images