Perché le manette vengono pixelate?
Le leggi che impediscono di pubblicare foto di gente in manette sono recenti, e figlie di un periodo storico preciso (indovinate quale)
Ieri diversi siti di news italiani hanno mostrato le foto delle Pussy Riot, il gruppo punk russo condannato ieri per “teppismo con l’aggravante dell’odio religioso”, con le manette ai polsi censurate. In Italia infatti, dal 1999, è vietata da una norma del codice di procedura penale la pubblicazione di fotografie che ritraggono persone in manette oppure sottoposte ad altri mezzi di coercizione. Questo divieto, tuttavia, in genere non viene rispettato in caso di arresti di mafiosi o criminali comuni.
Ma già prima di questa norma c’era in Italia la tendenza a cercare di proteggere gli arrestati e la loro privacy. Ad esempio il Codice deontologico dei giornalisti, approvato nel 1998 (un anno prima della modifica del codice penale che vietava di pubblicare foto di persone ammanettate), all’articolo 8 specificava che le persone in stato detentivo non dovevano essere fotografate a meno di “rilevanti motivi di interesse pubblico”. Il comma 3 specifica che “Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi.”
Un confronto con come vanno le cose negli altri paesi del mondo mostra che in Italia, ma non solo, si tratta di un tema sensibile, mentre altri paesi sembrano meno interessati al tema delle manette. Negli Stati Uniti, ad esempio, è assolutamente normale la pubblicazione di fotografia di personaggi (anche molto importanti) in manette. Sono celebri le foto da ammanettati del truffatore Bernard Madoff e in quello del presidente del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn. Proprio a proposito delle foto di DSK ci fu una polemica intorno alle foto: in Francia, dissero alcuni commentatori, immagini simili non sarebbero mai state pubblicate, dato che una nuova legge approvata nel 2000 vieta la pubblicazione di foto di un accusato in manette.
In Italia, tra l’altro, ci sono anche limitazioni all’uso stesso delle manette. Si tratta della legge numero 492 del 1992, che al comma 4 dell’articolo 1 dice: “nelle traduzioni individuali l’uso delle manette ai polsi è obbligatorio quando lo richiedono la pericolosità del soggetto o il pericolo di fuga o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione. In tutti gli altri casi l’uso delle manette ai polsi o di qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica è vietato”.
La stessa legge all’articolo 2, comma 4, dispone che “sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonché per evitare ad essi inutili disagi”. Una situazione molto diversa da quella degli Stati Uniti, dove le manette devono essere utilizzate sempre e comunque e non c’è alcun divieto di ritrarre chi le indossa.
Molte di queste normative, in Italia, sono figlie della stagione di Tangentopoli, non a caso il periodo in cui ad essere fotografati in manette erano più spesso politici e loro conoscenti. In particolare, la legge 492/92 che abbiamo citato deriva quasi direttamente dal caso del giornalista Enzo Carra, all’epoca portavoce del leader della DC Forlani. Carra fu arrestato in flagrante per falsa testimonianza dal PM Piercamillo Davigo nel 1993 e fu poi portato nella gabbia del tribunale con manette e una catena lunga un metro. Il suo caso all’epoca fece molto scalpore: Carra veniva processato per un reato non particolarmente grave (falsa testimonianza) per il quale in molti all’epoca pensavano che le manette fossero eccessive. Carra fu poi condannato.
Una decina di anni prima si era verificato un caso simile, che però non produsse alcuna legge contro le manette. Il protagonista non era un politico, ma il presentatore Enzo Tortora, che nel 1983, calunniato da alcuni pentiti di mafia, venne arrestato e tenuto in prigione per sette mesi. Le fotografie di Enzo Tortora in manette nel cortile di una caserma dei carabinieri a Roma furono pubblicate da tutta la stampa italiana. Condannato in primo grado a dieci anni per associazione mafiosa, sarà poi assolto in appello.