Il problema con l’India
Perché si parla sempre della spettacolare crescita economica cinese, e "la più grande democrazia del mondo" continua a deludere le aspettative?
di Davide Maria De Luca
Oggi l’agenzia di stampa Reuters riporta che l’India potrebbe essere il primo tra i paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) a perdere l’investement-grade, che è come dire che le agenzie di rating non considerano più sensato investire in quel paese (la situazione della Grecia, ad esempio). Anche il premier indiano Manmohan Singh condivide simili timori sul futuro dell’India: pochi giorni fa, al culmine delle celebrazioni per il 66esimo anniversario dell’indipendenza, ha dichiarato che bisogna fare di tutto per rafforzare l’economia e superare l’attuale momento di crisi.
L’India attualmente si dibatte in difficoltà molto superiori a quelle degli altri grandi paesi emergenti e alcuni suoi problemi strutturali (inefficienza burocratica, corruzione, instabilità politica) cominciano a sembrare ostacoli insuperabili sulla strada per il suo sviluppo. Alcuni arrivano a dire che è stato prematuro inserire l’India nei BRICS e che in realtà, per il suo futuro, non c’è molto da sperare.
Sono affermazioni all’apparenza piuttosto strane, visto che fino a un anno fa l’India era considerata la nuova Cina: un paese enorme, con uno sviluppo economico rapido e un potenziale di crescita quasi illimitato. Il fatto che l’India fosse una democrazia e non una dittatura nazionalista-comunista come la Cina, rendeva ancora più ottimisti sulle sue prospettive di crescita. Imprenditori di successo, come il magnate dell’automobile Ratan Tata, tra gli uomini più ricchi del mondo, avevano contribuito a creare dell’India l’immagine di un paese di successo e in rapida uscita dalla povertà.
La seconda Cina
La comparsa dell’India sulla scena mondiale come “seconda Cina” – dato che lo spettacolare sviluppo economico cinese non è più una notizia almeno dagli anni Novanta – ha una data precisa: gennaio 2006. Quell’anno, come tutti gli anni dal 1971, si svolgeva a Davos il World Economic Forum, una riunione annuale dove si incontrano e fanno affari imprenditori e finanzieri. Fin dall’inizio, il Forum di Davos ha anche attirato politici in cerca di visibilità o interessati a portare investimenti nei loro paesi.
Dall’inizio degli anni 2000 sempre più frequentemente a Davos si è parlato della crescita economica della Cina, mentre l’India faceva la figura di una, fra le tante, economie emergenti. Nel 2006 il governo indiano decise di cambiare le cose e investì, secondo stime prudenti, 4 milioni di dollari per pubblicizzare il paese al Forum di Davos. Ai delegati e giornalisti fu fatto trovare nella stanza d’albergo un iPod con musica indiana e una sciarpa di pashmina. Diverse feste e ricevimenti furono organizzati dalla delegazione indiana: incluso quello di chiusura che, stando ai testimoni, fu una sfarzosa celebrazione dell’India con bellezze locali che danzavano in costume davanti a una gigantografia del Taj Mahal blu elettrico, e conclusa da un discorso sulle opportunità offerte dal paese tenuto dal presidente del Forum con in testa un turbante colorato.
In realtà l’India aveva abbandonato quello che veniva chiamato “il tasso di crescita indù” (cioè una sostanziale stagnazione economica) già negli anni ’90 e aveva cominciato a crescere con tassi da economia emergente. Ma fu dal 2006 che cominciò a diffondersi la contrapposizione tra il Dragone (la Cina) e l’Elefante (l’India): due modelli differenti, ma ugualmente di successo, per la crescita economia dei paesi poveri.
Ma nel corso del 2012 anche i più ottimisti hanno dovuto rivedere la loro opinione sull’India. La crescita economica, ad esempio, è stata pessima, almeno rispetto alle previsioni. Alla fine del 2011 il governo indiano aveva annunciato che finalmente la crescita del PIL indiano avrebbe toccato le due cifre (cioè sarebbe salita al 10 per cento), raggiungendo finalmente il livello di crescita cinese. A febbraio, però, le stime sono state abbassate al 7,4 per cento. A luglio il governo ha dovuto ammettere che la crescita non avrebbe superato il 6% mentre in questi giorni un panel di esperti indipendenti ha definito stime credibili una crescita del 5-5,5%.
C’è poi la questione del deficit nella bilancia commerciale. La caratteristica fondamentale della Cina e di molti altri paesi in via di sviluppo è che hanno una bilancia commerciale attiva: cioè esportano più di quanto importano e questa è una cosa buona. L’India, incredibilmente, ha un deficit nella bilancia commerciale di 10 miliardi di dollari: caso unico tra i BRICS e tra gran parte delle economia emergenti.
Questo deficit è dovuto in parte a una scelta politica di favorire il mercato interno piuttosto che le esportazioni e in parte al costo che hanno le importazioni energetiche. L’India ha bisogno di comprare all’estero il suo petrolio e il suo carbone, ma lo fa con una moneta debolissima, la rupia (la peggiore moneta dell’Asia). Il petrolio si compra in dollari, quindi più la rupia cala di valore, meno petrolio si riesce a comprare con la stessa cifra.
La rupia è così debole proprio perché il paese non esporta molto: infatti, quando la bilancia commerciale di un paese è in attivo, sul mercato delle monete cresce la domanda per cambiare i propri soldi in quella moneta e comprare i beni di quel paese. Le monete rispondo alle leggi della domanda e dell’offerta, quindi se una moneta viene richiesta aumenta di valore. Naturalmente è valido anche il contrario. Ma la moneta indiana non aumenta di valore anche perché il governo continua a stampare rupie, nel tentativo di stimolare l’economia (sempre per la legge della domanda e dell’offerta, se aumentano le rupie in circolazione, tendenzialmente ne diminuisce il valore).
A questo ed altri problemi che affliggono l’India il Financial Times ha dedicato qualche settimana fa un editoriale di due colonne molto duro. Tenere i tassi bassi, cioè stampare rupie, scrive la redazione del FT, è una politica che non potrà continuare perché l’inflazione in India sta andando fuori controllo, mentre la scelta del governo di continuare a fare deficit, sempre nel tentativo di stimolare la crescita, potrebbe portare a un disastro nelle finanze pubbliche (le voci sulla perdita dell’investement-grade dell’India sono causate proprio da questo).
Ma la parte più dura dell’editoriale è quella dove si parla della classe politica indiana (e sembra di leggere dell’Italia, fatte tutte le dovute proporzioni). Secondo il FT, il principale problema dell’India è una classe politica divisa, incapace di agire, corrotta in maniera pervasiva, che si appoggia su una burocrazia lenta e inefficiente. In India c’è bisogno di grosse riforme che cambino la struttura profonda del paese, ma è improbabile, conclude l’editoriale, che l’attuale classe politica sia capace di compierle.