Che fine ha fatto Termini Imerese?
Storia della fabbrica ancora in crisi e dei suoi guai che vengono da lontano, mentre si parla della vendita ad una società cinese
di Davide Maria De Luca
Oggi lo stabilimento di Termini Imerese, al centro delle cronache di alcuni mesi fa quando si parlò della sua crisi e possibile chiusura, potrebbe essere venduto ad una società cinese. Il Ministero dello Sviluppo economico ha diffuso questa settimana un comunicato in cui dice di essere in trattativa con Chery International, un’azienda di proprietà statale cinese. Chery produce 600 mila auto l’anno ed è il settimo produttore di auto della Cina. Il piano è che Chery possa entrare come partner in una nuova società che acquisterebbe lo stabilimento insieme ad un partner italiano.
Lo stabilimento di Termini Imerese, in provincia di Palermo, è ancora di proprietà della FIAT. Circa 1.300 operai sono in Cassa integrazione straordinaria, mentre altre 600 persone hanno avuto i cosiddetti scivoli (cioè incentivi economici di vario genere) per andare anticipatamente in pensione.
L’ipotesi di una vendita a Chery International lascerebbe comunque la porta aperta all’imprenditore molisano Massimo Di Risio. Fino a giugno sarebbe stato lui, infatti, a dover comprare lo stabilimento di Termini Imerese con la sua azienda, la DR Motor (che è già partner della Chery International). La DR Motor al momento impiega 200 lavoratori.
L’accordo che aveva concordato con il Ministero per lo Sviluppo economico prevedeva un investimento da parte di Di Risio di 316 milioni di euro, l’assunzione di circa 1.300 lavoratori nello stabilimento e di altri 300 nell’indotto (cioè praticamente tutti i dipendenti dello stabilimento non andati in pensione, più 300 nuove assunzioni). Il Ministero però ha fatto sapere a fine giugno che non riteneva Di Risio in grado di fare l’investimento da solo.
Lo stabilimento di Termini Imerese ha smesso di produrre la Lancia Y alle ore 22 del 24 novembre 2011. Dal primo gennaio 2012 e fino al 31 dicembre 2013 gli operai sono in Cassa integrazione straordinaria (in altre parole il loro stipendio viene pagato dall’INPS, cioè dallo stato). Non sono i primi soldi che lo stato spende per Termini Imerese: lo stabilimento è nato nel 1970, grazie ad un investimento di 400 milioni della Regione Sicilia, che per molti anni rimase socia al 40%.
Negli anni, molti hanno criticato sia la FIAT che lo stato per la costruzione di uno stabilimento definito una “cattedrale nel deserto”. L’accusa è che alla base della creazione dello stabilimento non ci fosse una logica aziendale (costruire dove è più conveniente produrre), ma una logica politica (costruire dove c’è bisogno di creare consenso elettorale). Per convincere gli Agnelli a impiantare uno stabilimento in un luogo privo di infrastrutture e privo dell’indotto necessario, la Regione Sicilia dovette investire quasi mezzo miliardo.
La Regione mantenne la sua quota nello stabilimento fino al 1977. Negli anni ’70 arrivò a Termini la produzione della Panda e della 126. Gli addetti crebbero, arrivando fino a 1.500 e poi a 3.200 nel corso degli anni ’80. A causa delle sue dimensioni, a Termini si è sempre potuto produrre un solo modello di auto per volta e questo ha legato lo stabilimento all’andamento sul mercato del modello che veniva prodotto. Nel 1993 a Termini si è cominciato a produrre la Fiat Tipo, un modelo che sul mercato andò malissimo: la produzione venne ridotta e cominciarono le tensioni sindacali. Come ha scritto Fabrizio Goria sul Riformista, Termini Imerese veniva tenuta aperta grazie all’insistenza della Regione che non voleva perdere una delle poche industrie ad avere sede in Sicilia.
Con la crisi, nel 2009, Sergio Marchionne annunciò di voler chiudere lo stabilimento di Termini Imerese, suscitando fortissime polemiche da parte dei sindacati. Secondo la FIAT, produrre un’auto a Termini Imerese costava circa 1.000 euro in più che in qualsiasi altro stabilimento. L’indotto, cioè quella rete di piccole imprese che forniscono i componenti per creare l’auto, non si è mai sviluppato (non ha impiegato mai più 500-800 addetti) anche a causa della criminalità organizzata che scoraggiava gli investimenti. Lo stabilimento è tra i più piccoli della Fiat (negli anni ’80 arrivò a 3.200 dipendenti, mentre Mirafiori negli stessi anni ne aveva circa 40 mila).
Il problema più grande però era quello dei trasporti. I componenti fondamentali per produrre le auto dovevano arrivare via mare al porto di Catania, l’unico con le attrezzature per ospitare le grandi navi da trasporto. Sbarcati a Catania, i componenti venivano messi su treni merci che dovevano percorrere circa 200 chilometri fino allo stabilimento. Lo stesso processo in direzione opposta andava seguito una volta terminata l’automobile.
Foto: Cristiano Laruffa/LAPRESSE