I soldi di Ibrahimovic
Quella del calcio è una non industria, scrive Dario Di Vico, dove tre squadre possono ignorare le leggi del mercato e le altre staranno sempre peggio
Dario Di Vico riflette sul Corriere sulle reazioni che generano gli altissimi stipendi dei calciatori, a partire dal caso di Zlatan Ibrahimovic, appena passato dal Milan al Paris St. Germain.
Nell’anno IV della Grande Crisi è quasi scontato indignarsi per il superstipendio che il signor Zlatan Ibrahimovic percepirà dal suo nuovo club, il Paris Saint Germain. I 16,2 milioni di euro l’anno di ingaggio fanno a pugni con l’etica e persino con il buon senso. Del resto una corrente di pensiero piuttosto ampia sostiene che proprio la pessima distribuzione del reddito sia una delle cause della mancata ripartenza delle economie occidentali. Quindi non ci resta che consegnare Ibra al Fisco transalpino e vedere che cosa ne esce fuori, fino a che punto i Befera parigini si spingeranno a tassarlo in nome dell’égalité e fino a dove i suoi datori di lavoro, la Qatar Investments, si faranno carico delle imposte pur di non contrariare l’irascibile Zlatan.
Siccome però considero l’indignazione un sentimento quanto meno parziale, varrà la pena affrontare il caso Ibra-Psg anche da un altro punto di vista. La domanda clou potrebbe essere questa: se il calciatore svedese con il suo lavoro creasse valore e ricchezza attorno a sé e questo surplus si spalmasse su un consistente numero di persone perché dovremmo indignarci davanti al suo super emolumento? Anzi, dovremmo ringraziare il nuovo Re Mida cresciuto nei sobborghi di Malmoe.
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