Perché serve un trattato sulle armi
Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, 193 paesi si sono riuniti a New York per discutere l'introduzione di un patto sul commercio internazionale di armi
di Nadia Ferrigo
Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, 193 paesi si sono riuniti a New York per discutere l’introduzione di un trattato sul commercio internazionale delle armi (Arms Trade Treaty). I lavori sono iniziati lo scorso 2 luglio e non sarà semplice trovare regole condivise. Come spiega Ben Debusmann di Reuters, solamente 52 paesi nel mondo hanno approvato leggi che regolamentano il commercio internazionale delle armi e meno della metà di queste prevede sanzioni, pecuniarie o penali, per la loro violazione.
Le conseguenze della mancanza di regole sono evidenti. Solo dopo forti pressioni internazionali, per esempio, la Russia ha deciso di interrompere la vendita delle armi in Siria, dove prosegue da mesi una dura guerra tra le forze governative e gli oppositori di Bashar al-Assad. C’è poi il caso di Viktor Bout, il commerciante di armi a cui è ispirato il film del 2006 Lord of War, condannato lo scorso aprile dal tribunale di New York a 25 anni di carcere, non per aver armato guerriglieri e dittatori africani negli anni Novanta, ma per aver fatto affari con le FARC, le forze di rivoluzione armate colombiane incluse nell’elenco delle organizzazioni terroristiche riconosciute dagli Stati Uniti.
Come si è arrivati fino a qui
I negoziati delle Nazioni Unite sul trattato si concluderanno a fine luglio e l’esito è ancora incerto, così come non è ancora chiaro quali paesi saranno disposti a ratificarlo. L’obiettivo principale è creare una “regola d’oro” condivisa da tutti: prima di approvare qualsiasi trasferimento di armi, ogni stato dovrà eseguire esami approfonditi sul rispettivo paese e nel caso di violazione di diritti umani, proibire la vendita. All’avvio della discussione ha contribuito la decisione dell’amministrazione Obama di esprimersi a favore di una regolamentazione internazionale.
Prima del 2009 la posizione degli Stati Uniti, il primo esportatore di armi al mondo, era stata sempre sfavorevole a un trattato. I punti critici sono ancora molti: Russia e Cina vorrebbero leggi meno severe, che per esempio non riguardino la regolamentazione del commercio delle cosiddette armi leggere (pistole, fucili, carabine, tutto ciò che può essere usato da una o due persone senza l’ausilio di un trasporto meccanico). Altri paesi, Svizzera in testa, hanno invece obiettivi più ambiziosi. Un punto cruciale che verrà affrontato in queste settimane è l’opportunità di regolamentare la vendita delle munizioni. Gli Stati Uniti vorrebbero escluderle dal trattato, la questione non è marginale. La campagna Control Arms promossa dal 2003 da Amnesty International e da altre associazioni civili, ricorda in un video che ogni anno si producono due proiettili per ogni abitante del pianeta e che senza munizioni «i fucili sono solo bastoni».
Numeri
I tre quarti del commercio internazionale delle armi sono in mano a sei paesi: in testa ci sono gli Stati Uniti, seguiti da Russia e Germania, poi Gran Bretagna, Cina e Francia. Secondo il SIPRI Yearbook 2012, l’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute, la spesa militare mondiale ha raggiunto i 1.740 miliardi di dollari: il 2,5 per cento del prodotto interno lordo globale, con un costo medio di 249 dollari per ogni abitante del pianeta. La spesa, segnalano gli analisti, non ha subito un forte incremento rispetto agli anni passati.
I dati dell’istituto di ricerca svedese sono stati elaborati dal Guardian in un’infografica che mostra quanto spende ogni paese per il settore militare, sia in assoluto sia in percentuale rispetto al prodotto interno lordo. Tra i paesi che, in proporzione al loro reddito, hanno investito di più in armi nel 2011, al primo posto c’è l’Arabia Saudita, seguita da Oman, Emirati Arabi, Israele, Giordania e Timor Est.
In Italia, sempre secondo la ricerca della SIPRI, la spesa militare italiana è di difficile ricostruzione, perché distribuita nei bilanci di diverse amministrazioni statali e approvata dal Parlamento in un bilancio separato da quello del ministero della Difesa. Come per la Grecia, inoltre, le cifre italiane per il 2011 non erano disponibili al momento della stesura del rapporto. Per quel che riguarda il 2010, l’Italia ha speso 23 miliardi di euro, pari all’1,7 per cento del prodotto interno lordo. Ma questi sono solo i dati sul commercio “regolare” di armi e sulla dotazione agli eserciti.
Secondo Small Arms Survey, un istituto di ricerca indipendente con sede a Ginevra, le armi leggere nel mondo sono circa 875 milioni. Raccogliere le informazioni relative alle armi leggere è ancora più difficile. Il traffico clandestino è enormemente più sviluppato: le armi leggere sono più economiche e facili da trasportare clandestinamente oltre i confini nazionali. E a questo si aggiunge il fatto che le armi leggere in alcuni paesi possono essere vendute anche a uso civile, con norme più o meno restrittive.
Gli attuali accordi
Il registro internazionale dell’ONU per il commercio delle armi convenzionali prevede che tutti gli Stati comunichino esportazioni ed importazioni delle armi con tempestività e massima trasparenza. In questo modo è più facile per le Nazioni Unite monitorare il flusso mondiale degli armamenti. Dalla sua istituzione nel 1991, il registro ha ricevuto i rapporti di oltre 170 stati. Ma non sempre le comunicazioni sono puntuali e veritiere, senza contare che il registro conta solo sette categorie di armi, quelle considerate più letali: carri armati, veicoli da combattimento, artiglieria da campo, aerei da combattimento, elicotteri, navi da guerra e missili. Solo negli ultimi tempi alcuni paesi hanno iniziato a rendere note anche le compravendite di armi leggere.
Esistono poi svariate convenzioni internazionali, ma nessuna è mai stata adottata da tutti gli stati membri dell’ONU. Tra i trattati che hanno avuto maggior successo, c’è la Convenzione di Ottawa del 1997, nata per vietare l’uso nei conflitti delle mine antiuomo (Mine Ban Convention), firmata da 120 paesi, tra cui l’Italia, ma non da India, Cina, Pakistan, Giappone, Israele, Iran, Iraq e Stati Uniti. Barack Obama aveva annunciato di voler aderire, ma poi non se ne è saputo più nulla. La Convenzione che proibisce l’uso delle bombe a grappolo (Convention on Cluster Munitions) è stata firmata da appena 66 paesi.
foto: LO/AFP/GettyImages