Si può intercettare Napolitano?
Scalfari e Ingroia su Repubblica discutono di un'intricata questione giuridica
Nel suo editoriale di domenica su Repubblica, Eugenio Scalfari si è occupato con un post scriptum del caso Mancino e delle intercettazioni nei suoi confronti, che avrebbero anche coinvolto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
L’ex presidente del Senato Nicola Mancino sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Palermo con l’ipotesi di falsa testimonianza, nell’ambito delle indagini sulla presunta trattativa tra Stato e mafia in seguito agli attentati del 1992 e del 1993. L’ipotesi dei magistrati, basate in parte sulle dichiarazioni di alcuni mafiosi, è che lo Stato avesse cercato di giungere a un accordo che avrebbe previsto la fine delle stragi in cambio di una attenuazione delle misure detentive previste dall’articolo 41bis, il cosiddetto “carcere duro” contro i mafiosi. Secondo le ipotesi di diversi giornali circolate nelle ultime settimane, preoccupato dalla situazione, Mancino avrebbe chiesto aiuto a Napolitano. Il presidente ha riportato le preoccupazioni di Mancino in una lettera al procuratore generale della Cassazione Esposito, il quale veniva invitato a valutare l’esercizio dei suoi poteri, anche sulla procura nazionale antimafia
Scalfari domenica si è occupato di questa ultima parte della vicenda, chiedendosi come sia stato possibile che i magistrati abbiano intercettato il presidente della Repubblica.
Quando qualche settimana fa Nicola Mancino, la cui utenza era vigilata dalla suddetta Procura, chiese al centralino del Quirinale di metterlo in comunicazione col Presidente, gli intercettatori avrebbero dovuto interrompere immediatamente il contatto. Non lo fecero. Forse l’agente di polizia giudiziario incaricato dell’operazione non sapeva o aveva dimenticato che da quel momento in poi stava commettendo un gravissimo illecito.
Ma l’illecito divenne ancora più grave quando il nastro fu consegnato ai sostituti procuratori i quali lo lessero, poi dichiararono pubblicamente che la conversazione risultava irrilevante ai fini processuali, ma anziché distruggerlo lo conservarono nella cassaforte del loro ufficio dove tuttora si trova.
L’editoriale si concludeva con una osservazione sul comportamento di quei “giornali che pungolano il Capo dello Stato”, che secondo Scalfari fino a ora hanno evitato di
dire una sola sillaba sulla grave infrazione compiuta da quelle Procura, la quale deve sapere che il Capo dello Stato non può essere né indagato né intercettato né soggetto a perquisizione fino a quando – in seguito a “impeachment” – non sia stato sospeso dalle sue funzioni con sentenza della Corte Costituzionale eretta in Suprema Corte di Giustizia.
La questione delle intercettazioni del presidente è giuridicamente intricata. Oggi su Repubblica è stata pubblicata, in forma di riassunto, la replica del procuratore di Palermo, Francesco Messineo, in cui si spiega che con le attuali norme non è prevista o autorizzata “l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione” di una intercettazione. Il procuratore sembra quindi dire che non fosse possibile interrompere il contatto e smettere di registrare la conversazione che avvenne tra Mancino e il presidente Napolitano. (È bene ricordare che il procuratore non entra nel merito del caso specifico, evitando di confermare o smentire se Napolitano sia stato effettivamente intercettato.) Messineo aggiunge anche che alla distruzione delle intercettazioni “si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza e con l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti”. Il procuratore Antonio Ingroia ha commentato l’editoriale di Scalfari dicendo di essere “assai stupito che un padre del giornalismo, in genere molto attento a essere dettagliatamente informato su tutti i temi che è solito affrontare, ignori la normativa ed esprima un’opinione così disinformata.”
Scalfari ha aggiunto una controreplica, spiegando di non far polemica e proponendo a Messineo cinque punti cui rispondere per capire meglio la vicenda. E il tema in effetti non è banale e ci riguarda tutti perché aiuta a capire, o almeno dovrebbe, in quali casi e a che condizioni la più alta carica dello Stato possa essere intercettata. Secondo Scalfari, le norme che regolano la delicatissima questione si trovano principalmente nella legge 5 giugno 1989 n. 219, nello specifico nel secondo capo che si chiama “Norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione” (l’articolo 90 stabilisce che il presidente “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”). L’articolo 7 dice che provvedimenti come intercettazioni telefoniche e perquisizioni nei confronti del presidente della Repubblica “non possono essere adottati […] se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica”.
Al procuratore Messineo, Scalfari chiede se la legge n. 219 sia stata abolita o se sia tutt’ora in vigore e se sia stata applicata correttamente nel caso Mancino – Napolitano. La questione è in realtà più complessa perché in questo caso specifico non fu Giorgio Napolitano a essere sottoposto direttamente a una intercettazione, ma un’altra persona (Mancino) che si trovò poi a comunicare con il presidente della Repubblica. Si tratta quindi di una intercettazione indiretta, che per esempio nel caso dei parlamentari costituisce un’importante differenza. Semplificando: per intercettare un parlamentare i magistrati devono ottenere prima l’autorizzazione del Parlamento, mentre se devono usare una intercettazione indiretta di un parlamentare possono chiedere l’autorizzazione dopo averla effettuata.
Ieri Ingroia ha spiegato che la prima carica dello Stato “ha le stesse garanzie dei parlamentari per le intercettazioni indirette”, senza però approfondire il tema. Nel saggio “La responsabilità del presidente della Repubblica”, Angioletta Sperti cita un precedente del caso Mancino – Napolitano. Nel febbraio del 1997, infatti, fu pubblicato il contenuto di una intercettazione telefonica tra il presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro, e l’amministratore delegato di un importante istituto bancario. Sperti scrisse che all’epoca in Parlamento emerse una “lettura estensiva” delle norme in vigore, che sebbene sfumate escluderebbero la possibilità di intercettare, anche indirettamente, il capo dello Stato.
Nelle dichiarazioni rese in sede di dibattito parlamentare sulla vicenda emerse una lettura estensiva dell’irresponsabilità, in base alla quale dal dettato costituzionale fu desunto il divieto di sottoporre il Presidente a qualunque forma di intercettazione ed il dovere per il magistrato di distruggere immediatamente la registrazione in cui il Capo dello Stato figurava come terzo intercettato indirettamente.