Per la patria, e per sé
L'analisi di Ian Buruma sul rapporto tra "mercenari del calcio", gioco e sentimenti nazionali
Il Corriere della Sera ha tradotto giovedì un’analisi di Ian Buruma, illustre studioso di culture internazionali britannico (di nascita olandese), sul rapporto tra le squadre di calcio che abbiamo visto agli Europei e lo spirito patriottico (qui la versione in inglese).
La stampa popolare più isterica, in Germania, nel deplorare la sconfitta contro l’Italia nelle semifinali del campionato europeo, ha dato la colpa allo scarso entusiasmo dei suoi giocatori nell’intonare l’inno nazionale. Facciamo il paragone con i calciatori italiani, che abbiamo visto cantare tutti a squarciagola l’Inno di Mameli. Il capitano Gigi Buffon, addirittura, cantava tenendo gli occhi chiusi, quasi fosse raccolto in preghiera.
Ma l’Italia non ha avuto nessuna possibilità nella finale contro la Spagna, la squadra più forte al mondo, i cui giocatori non si sono scomodati nemmeno ad aprir bocca, dato che la Marcia Reale non ha versi da cantare. Per non parlare dei giocatori catalani, da sempre insofferenti all’inno nazionale, dal tempo in cui venne diffuso e imposto con la forza sotto la dittatura di Francisco Franco, da sempre ostile alla Catalogna.
Sappiamo che nel calcio le squadre più fortunate non sono necessariamente quelle che vantano i giocatori più bravi. I campioni sanno agire di concerto, tutti insieme, coesi, immuni ai capricci delle star, ciascun giocatore pronto a lavorare per gli altri. Ma è lecito affermare che ci sia davvero il patriottismo dietro lo spirito vincente delle squadre nazionali, come sembrano convinti quei tedeschi che hanno criticato la formazione della Germania?
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