Hong Kong, 15 anni dopo
Il primo luglio 1997, la città tornò a far parte della Cina, ma oggi solo un suo abitante su cinque si dichiara "cinese"
Il presidente cinese Hu Jintao ha visitato oggi la città di Hong Kong per il giuramento del nuovo leader politico della città, il 57enne Leung Chun-ying. La cerimonia si è tenuta in una data importante per Hong Kong: quindici anni fa, il primo luglio 1997, la sovranità di Hong Kong venne trasferita dal Regno Unito alla Cina, un passaggio che viene chiamato nel Regno Unito “the Handover” (“la Cessione”), ma in Cina “la Riunificazione” o “il Ritorno”. Hong Kong continua a mantenere uno status molto particolare all’interno della Repubblica Popolare Cinese, e il rapporto degli abitanti della città con il resto del paese è spesso difficile: per questo motivo, la visita di Hu Jintao è stata accompagnata da grandi proteste e da manifestazioni a cui hanno partecipato migliaia di persone.
La manifestazione principale, a cui hanno partecipato molte decine di migliaia di persone (400.000 secondo gli organizzatori), si è tenuta oggi. I manifestanti hanno cantato slogan contro il governo cinese (come “una persona, un voto”, per prendere in giro lo slogan cinese sul governo della città) ma soprattutto contro il nuovo capo dell’esecutivo, Leung, che è stato chiamato “un lupo in veste di pecora” per le sue simpatie verso il Partito Comunista Cinese. La paura dei manifestanti è che il nuovo governo metta a rischio le libertà civili che Hong Kong mantiene anche dopo il passaggio alla Cina.
La Cina ha garantito che il sistema di governo di Hong Kong sarebbe rimasto largamente autonomo per molti anni, secondo il principio riassunto dallo slogan “un paese, due sistemi”. Grazie a questo, Hong Kong è oggi certamente la città più libera della Cina, l’unica in cui è pensabile una manifestazione come quella che ogni anno ricorda i morti nella strage di piazza Tienanmen: una veglia alla luce delle candele che quest’anno, secondo gli organizzatori, ha portato in strada circa 180.000 persone. A Hong Kong si stampano oggi molte riviste e libri della dissidenza verso il regime comunista.
Il sospetto verso la Cina è così alto, racconta il Washington Post, che quando alcuni veicoli militari cinesi sono passati per le strade di Hong Kong per un normale spostamento, alcune settimane fa, i siti internet e i giornali locali hanno cominciato a parlare di ammassamento di forze per stroncare eventuali proteste durante la visita del presidente cinese di questi giorni, una visita che è iniziata venerdì tra coreografie molto imponenti e un grande dispiego dell’apparato di sicurezza.
La questione dell’identità
Secondo un sondaggio recente, citato in un lungo articolo del Washington Post dedicato alla difficile identità di Hong Kong, oggi gli abitanti della città sono ancora meno fiduciosi nei confronti del governo della Repubblica Popolare di quanto lo fossero nel 1997.
La scorsa settimana, l’Università di Hong Kong ha pubblicato una ricerca che diceva che solo il 18 per cento dei residenti di Hong Kong sceglierebbe “cinese” come primo aggettivo per descrivere la propria identità, percentuale ancora più bassa tra i giovani. Eppure circa il 95 per cento degli abitanti della città è etnicamente cinese ed è fiera della storia e della cultura della Cina: la questione sta tutta nel rapporto con il Partito Comunista cinese, dato che molti degli abitanti di Hong Kong discendono da immigrati nella città dal resto del paese per ragioni politiche. Negli ultimi anni, inoltre, circa 28 milioni di persone dal resto della Cina è venuto a visitare la città, di solito per turismo o per i negozi, ma in qualche caso per far nascere lì i propri figli e ottenere così la cittadinanza di Hong Kong. Questo flusso di persone ha fatto nascere movimenti di protesta, che hanno comprato spazi pubblicitari sui giornali in cui chiamano i visitatori dal resto della Cina “locuste”.
Ancora quest’anno, altre proteste hanno portato alla sospensione del progetto di introdurre nelle scuole corsi obbligatori di “educazione morale e nazionale”, una mossa proposta nel 2010 dall’ufficio per l’istruzione che avrebbe portato nelle classi di Hong Kong lezioni sul funzionamento del governo cinese e sul modo corretto di issare la bandiera nazionale. Dopo un grande dibattito nell’opinione pubblica cittadina, i programmi sono stati rivisti, ma le prime sperimentazioni previste per quest’anno non sono mai iniziate.
Che cos’è Hong Kong
Dal punto di vista amministrativo, Hong Kong è una delle due Regioni Amministrative Speciali della Cina. L’altra è Macao, ex colonia portoghese che fa parte della Cina dal 1999. Ma rispetto ai circa 500.000 abitanti di Macao, Hong Kong è una metropoli di quasi sette milioni di abitanti su un’area di 1.100 chilometri quadrati, il che fa della città una delle aree più densamente popolate del mondo.
Il sistema politico di Hong Kong non è certo una piena democrazia, ma è comunque molto più libero del rigido monopartitismo cinese. Ci sono molti partiti che concorrono alle elezioni, ma il capo del governo di Hong Kong (formalmente il Capo dell’Esecutivo) è scelto dal ristretto numero di persone che compongono in Comitato Elettorale: il comitato è formato da 1.200 persone, scelte con un meccanismo molto complesso che si basa principalmente sull’assegnazione di un certo numero di rappresentanti a ordini professionali e settori economici della società. Questo sistema, e la ripartizione tra le varie sezioni, garantisce che i settori più vicini agli interessi cinesi siano sovrarappresentati.
Ma oltre al sistema elettorale, ci sono altre differenze notevoli. Il sistema giudiziario della “città-stato” è indipendente e si basa sulla common law, il principio del diritto consuetudinario tipico dei paesi anglosassoni. La Legge Fondamentale di Hong Kong, scritta dopo il passaggio delle consegne tra Regno Unito e Cina, stabilisce che la città avrà “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto le relazioni estere e la difesa.
Dalle Guerre dell’oppio a Margaret Thatcher
La Cina, tuttavia, ha perso l’autonomia su Hong Kong in tempi relativamente recenti, dopo la prima Guerra dell’Oppio, che si combatté tra il 1839 e il 1842. In quegli anni, il gigantesco impero cinese era devastato dalla corruzione e dal cattivo governo, impoverito dopo secoli di splendore e pesantemente costretto tra le volontà di espansione militare e commerciale dei paesi europei, con in testa l’impero britannico. La prima Guerra dell’oppio garantì che l’isola di Hong Kong venisse data “in perpetuo” all’impero britannico. A questa si aggiunsero altri due territori: la penisola di Kowloon, nel 1860, e i cosiddetti Nuovi Territori nel 1898. Questi ultimi vennero dati al Regno Unito in prestito per 99 anni.
Non è chiaro, in realtà, come si avviarono i colloqui tra il Regno Unito e la Cina per la restituzione. Secondo alcuni storici, furono proprio le questioni di rinnovo di questo prestito a spingere l’allora governatore di Hong Kong Murray MacLehose, uno scozzese che era già stato ambasciatore a Pechino, a porre una domanda sul futuro di Hong Kong durante una visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese. La domanda fu posta, nel marzo 1979, direttamente al leader supremo Deng Xiaoping. Secondo alcuni, Deng venne colto impreparato dalla questione e espresse la necessità del ritorno di Hong Kong alla Cina, al termine del prestito.
La questione doveva comunque essere risolta, per evitare incertezze nei contratti e negli accordi commerciali. Nel 1982, il governo di Margaret Thatcher mandò in Cina l’ex primo ministro Edward Heath, con l’incarico di avviare negoziati con la Cina su Hong Kong. Deng disse chiaramente che la questione doveva essere chiarita con negoziati ufficiali. La speranza del governo Thatcher era di riuscire a mantenere il governo britannico sul territorio: ma la Cina rifiutò categoricamente questa opzione, non solo per i Nuovi Territori, ma anche per l’isola e per la penisola di Kowloon. La posizione cinese si rivelò durissima, dato che la Repubblica Popolare disse di non riconoscere i trattati con cui gli altri due territori erano stati ceduti “in perpetuo”, definendoli “disonesti e disuguali”. La Cina disse di riconoscere solo l’amministrazione britannica a Hong Kong, ma non la sua sovranità.
Vista l’impossibilità di mediare, il primo ministro cinese e quello britannico firmarono insieme la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica il 19 dicembre 1984, a Pechino. Con questa si stabiliva che tutti i territori di Hong Kong sarebbero tornati a far parte della Cina a partire dal primo luglio 1997, anche se la Cina si impegnava a non instaurare immediatamente il sistema socialista, lasciando invariato il sistema economico e politico della città per almeno 50 anni.
La cerimonia del primo luglio 1997 terminò i 156 anni del dominio coloniale di Hong Kong, che divenne la prima Regione Amministrativa Speciale della Cina. Erano presenti le massime autorità dei due stati: per la Cina era presidente il presidente Jiang Zemin, mentre in rappresentanza della regina Elisabetta II era presente il principe Carlo, con il primo ministro Tony Blair e l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, il politico conservatore Chris Patten.