Cosa ha detto Fornero sugli esodati
I dati, le spiegazioni e le risposte del ministro del Lavoro al Senato hanno messo un po' di concretezza - discutibile - in una discussione finora caotica e superficiale
di Elsa Fornero
Ieri il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha risposto al Senato alle molte interrogazioni e richieste di chiarimento che si sono ripetute nelle ultime settimane sul caso dei cosiddetti “esodati”, i lavoratori prepensionati negli anni scorsi le cui pensioni sono state sospese dagli interventi del governo Monti su quel fronte. Il testo dell’intervento di Fornero – pur con formule e linguaggi a cui spesso sfugge la priorità della chiarezza – è molto ricco di concretezza ed elementi e risponde punto su punto alle accuse e alle obiezioni: che lo faccia esaurientemente o no, vale la pena giudicarlo su questa concretezza e su questi elementi, piuttosto che in una dicussione piuttosto superficiale e confusa come è stata finora quella mediatica sulla questione.
Signora Presidente, onorevoli senatrice e senatori, desidero anzitutto esprimere un sincero ringraziamento per l’occasione che mi è offerta di fornire chiarimenti a quest’Aula e, attraverso essa, al Paese su un tema che ha suscitato e suscita forte interesse e grande apprensione tra i lavoratori e le loro famiglie. Spero di riuscire finalmente a chiarire una situazione oggettivamente complessa, con elementi di incertezza già a partire dall’individuazione dei soggetti interessati, anzitutto in termini concettuali e conseguentemente in termini numerici.
Il linguaggio giornalistico ha usato indifferentemente i termini salvaguardati, esodati ed esodandi, collocati e collocandi in mobilità, e così via. Sono sempre stata dell’avviso che la definizione corretta debba essere quella di lavoratori che meritano, pur con costi per la collettività, di essere salvaguardati dagli effetti del recente inasprimento dei requisiti per il pensionamento. E lo meritano in quanto, rimasti privi di lavoro, avrebbero avuto, in un arco temporale ridotto, accesso alla pensione secondo le regole previgenti. Chiunque può vedere in questa definizione una commistione di elementi economici, giuridici, sociali ed anche etici che riduce la misurabilità oggettiva dell’aggregato. Dividerò il mio intervento in tre parti, seguite da alcune riflessioni conclusive: una prima parte dedicata alla ricostruzione dei fatti; una seconda alla ricognizione dei numeri; una terza alle proposte di soluzione. Spero che l’esposizione, che a tratti potrà apparire quasi “noiosa elencazione”, sia atta a fornire adeguati elementi di conoscenza e di giudizio.
La ricostruzione. La riforma previdenziale del dicembre 2011 è stata approvata sotto l’incombere di una crisi finanziaria che ha indotto il Governo non soltanto a proporre misure severe, ma anche a farlo in tempi molto rapidi. Questa riforma aveva dichiaratamente un duplice scopo: non soltanto introdurre ineludibili misure di stabilizzazione finanziaria, ma anche dare il via a una grande operazione di ribilanciamento dei rapporti tra le generazioni, per troppo tempo squilibrati a sfavore dei giovani. Per mitigare gli effetti della riforma ci si è proposti, fin dall’inizio, di salvaguardare i precedenti requisiti pensionistici nei confronti di chi avesse conseguito i requisiti entro il 31 dicembre 2011, e di chi, prossimo al pensionamento, avesse perso o lasciato il suo lavoro proprio per accedervi in un arco temporale ragionevole. In questo secondo caso, proprio perché il diritto alla pensione non era ancora maturato, non si tratta però di garantire diritti acquisiti: si tratta, piuttosto, di tener conto delle comprensibili aspettative dei lavoratori verso un prossimo pensionamento, operandone un contemperamento con le contrapposte esigenze di stabilizzazione finanziaria.
La finalità primaria della norma di salvaguardia è pertanto quella di evitare che lavoratori ormai privi di lavoro perché prossimi al pensionamento si trovino senza alcuna copertura reddituale. Di qui la misura prevista dal decreto salva Italia e il conseguente accantonamento di risorse per consentire il pensionamento secondo le norme previgenti a un contingente stimato in 65.000 unità. Lasciatemi percorrere brevemente la genesi del problema numerico. In sede di definizione della riforma, i lavoratori da salvaguardare rispetto ai nuovi, più stringenti requisiti furono stimati da INPS e Ragioneria generale in circa 50.000. Tale numero fu quindi aumentato a 65.000 per garantire un margine di flessibilità, e si stanziarono le relative risorse. Poiché il decreto disponeva che i pensionamenti del 2012 avvenissero comunque sulla base delle vecchie regole, la legge stabilì nel 31 marzo il termine per la presentazione del relativo decreto interministeriale, così da consentire al Governo di approntare un provvedimento ragionato. Successivamente, con l’approvazione del decreto milleproroghe, il Parlamento ha aumentato il numero dei lavoratori da salvaguardare inserendo, pur con restrizioni, “accordi individuali” e “genitori di figli disabili” e stabilendo una clausola di salvaguardia, questa volta finanziaria, implicante l’aumento dell’aliquota contributiva nel caso di costo eccedente le risorse già accantonate. Nello stesso tempo il termine per l’emanazione del decreto interministeriale fu spostato al 30 giugno 2012.
Per definire il decreto ho costituito un gruppo di lavoro con dirigenti del Ministero, dell’INPS e della Ragioneria generale. In tale sede sono emersi con chiarezza alcuni problemi. In particolare, è apparso molto rilevante il numero dei lavoratori ancora in attività o in cassa integrazione interessati da accordi collettivi stipulati a livello governativo, ma ancor più a livello territoriale, per la gestione di crisi aziendali attraverso la fruizione di ammortizzatori sociali. Una platea, peraltro, ben difficile da quantificare in mancanza di un registro unico degli accordi sul territorio nazionale, e dei necessari dati relativi ai requisiti anagrafici e contributivi dei lavoratori. Come Ministro del lavoro, e di concerto con il Ministro dell’economia, ho pertanto ritenuto prioritario dare risposta ai lavoratori in più immediata situazione di necessità e quindi preparare il decreto per la salvaguardia del contingente già uscito dal lavoro, secondo un naturale criterio di equità tendente a dare precedenza ai soggetti con maggiore rischio di trovarsi senza reddito e senza pensione. Ciò non significa, tuttavia, avere trascurato il problema, peraltro meno urgente, dei lavoratori non inseriti nella salvaguardia del comma 14, come risulta sia da mie dichiarazioni in Commissione lavoro alla Camera e al Senato, sia dalla lettera che ho inviato alle organizzazioni sindacali il 20 aprile scorso. La non imminenza del problema (che riguarda pensionamenti a partire dal 2014) e l’assenza di risorse finanziarie immediatamente reperibili in un bilancio pubblico già messo a dura prova da vincoli interni e internazionali hanno indotto a ritenere che lo si sarebbe potuto affrontare nei mesi successivi. Peraltro non già con decreto interministeriale, bensì con uno specifico intervento normativo inteso ad estendere la salvaguardia anche a tali lavoratori. Ho anche sempre ritenuto che la soluzione dovesse ispirarsi a criteri di equità, oltre che di sostenibilità finanziaria, non considerando che, nella diversità delle situazioni personali e di categoria, tutti siano meritevoli del medesimo livello di salvaguardia.
Termino questa parte con alcune considerazioni sulla questione dei circa 400.000 soggetti, risultanti da una tabella elaborata dall’INPS (tabella 1 allegata agli atti) e che ha impropriamente alimentato la polemica dei giorni scorsi, il dato essendo stato interpretato come il numero di lavoratori da salvaguardare, ciò che non è.
Anzitutto, respingo, con forza, ogni insinuazione che io abbia fornito informazioni non vere relativamente al numero di lavoratori interessati (questa non è mai stata mia abitudine e non voglio certo infrangere la regola in questa mia breve parentesi da Ministro tecnico) o che io abbia inteso sottrarre dati alla pubblica conoscenza e discussione. Rivendico anzi di avere assunto, coerentemente con la oggettiva complessità e con la scansione temporale del problema, un atteggiamento di chiarezza e trasparenza, volto a risolvere subito i problemi più prossimi e a cercare soluzioni eque per quelli più lontani, nel rispetto di stringenti vincoli finanziari. Ribadisco altresì quanto già affermato: la tabella è parziale e, ove non corredata da adeguate spiegazioni, fuorviante, così da prestarsi a facili strumentalizzazioni. Parziale perché essa non contiene tutti gli accordi di mobilità, i cui effetti si perfezioneranno nei prossimi anni (e sui quali il Governo sta per l’appunto facendo la ricognizione, come dirò dopo); ma anche fuorviante perché essa individua un insieme eterogeneo dì soggetti costituenti la base dati entro la quale è stato individuato il contingente effettivo dei 65.000 lavoratori salvaguardati con il decreto. Il numero comprende, infatti, oltre 60.000 lavoratori che già hanno maturato i requisiti al 31 dicembre 2011, e quindi già fatti esplicitamente salvi dall’applicazione dei nuovi requisiti dalle disposizioni della riforma. A questi si aggiungono oltre 16.000 soggetti per i quali nulla cambia con la riforma, data la stessa decorrenza tra il nuovo e il vecchio regime.
Ci sono poi soggetti che maturano i requisiti previgenti al di fuori del periodo di mobilità e la cui inclusione nella platea dei salvaguardati comporta non solo una modifica della legislazione, ma anche una modifica dell’impostazione assunta negli schemi di deroghe degli ultimi 15 anni. Ci sono inoltre lavoratori collocati in mobilità dopo la data del 4 dicembre 2011, mentre la disposizione di legge si riferisce a questa data. Ancora, vi sono tutti i soggetti licenziati entro il 31 dicembre 2011, in seguito ad accordi individuali o collettivi, a prescindere dalla data di maturazione del diritto alla decorrenza, mentre il decreto proroga termini prevede espressamente che la deroga operi per chi matura la decorrenza del trattamento entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della nuova normativa. Infine, vi sono tutti i soggetti beneficiari della prosecuzione volontaria, senza alcun criterio selettivo di prossimità al pensionamento: per questi soggetti il decreto ha in effetti adottato, in coerenza con la soluzione proposta dal legislatore per i licenziamenti individuali, lo stesso criterio di prossimità di 24 mesi dal pensionamento.
Passo ora a considerare la ricognizione sui nuovi lavoratori da salvaguardare. Stabilire con precisione quanti siano i lavoratori interessati da accordi di mobilità, ma che ancora non hanno risolto il contratto di lavoro, non è semplice, come, purtroppo inascoltata, ho cercato più volte di dire. Alle difficoltà della stima numerica si aggiunge necessariamente la ricerca di criteri equi e sostenibili, come la vicinanza alla pensione e l’età anagrafica contributiva dei lavoratore. Nel novero di questi lavoratori vanno inclusi i “collocandi in mobilità”, ai sensi di accordi collettivi stipulati entro il 4 dicembre (o entro il 31 dicembre, secondo un ordine del giorno approvato dal Parlamento), che avrebbero conseguito il trattamento pensionistico secondo le vecchie regole al termine del periodo di mobilità. Questi lavoratori possono essere attualmente in cassa integrazione, in preavviso, in sospensione, o regolarmente al lavoro e matureranno i requisiti per la pensione fino al 2019.
Con riguardo a questa platea, va da subito precisato che non è possibile, attraverso i dati a disposizione del Ministero del lavoro e dell’INPS, pervenire ad un’esatta quantificazione, né soprattutto alla scansione temporale delle uscite. Gli accordi, infatti, sono noti per i contingenti aggregati, ma non indicano le anagrafiche sottostanti e non distinguono tra i soggetti che raggiungeranno i requisiti al termine della mobilità e gli altri. Inoltre, per molti di essi la mobilità è volontaria: pertanto, la fruizione potrebbe essere influenzata dal perimetro della nuova eventuale salvaguardia. Con riferimento ai lavoratori individuali, si potrebbe ampliare la platea inserendo in modo esplicito anche coloro che hanno ripreso a lavorare in modo saltuario e che maturano la decorrenza entro il 2014. Lo stesso ampliamento potrebbe riguardare i lavoratori cessati individualmente. Questa nuova platea di lavoratori da salvaguardare è quantificabile, con il margine di errore che le stime necessariamente comportano, in circa 55.000 soggetti, come specificato di seguito (si veda la tabella 2 allegata agli atti). Vi sono 40.000 lavoratori in mobilità ordinaria, a seguito di accordi sindacali stipulati entro il 31 dicembre 2011 e con data di licenziamento successiva al 4 dicembre 2011. Di questi, potrebbero rientrare nello status di salvaguardato coloro che maturano i requisiti per la pensione entro la fine del periodo di mobilità, in coerenza con il precedente decreto.
Una verifica dei requisiti contributivi anagrafici individua: 4.700 lavoratori già in mobilità ordinaria; 15.300 lavoratori in cassa integrazione guadagni straordinaria fino a marzo 2012 (ultimo dato disponibile), che si ipotizza passeranno al trattamento di mobilità ordinaria della durata di tre-quattro anni; 20.000 lavoratori, che si prevede saranno posti in mobilità senza il passaggio per la cassa integrazione guadagni straordinaria, stimati sulla base delle numerosità indicate nelle liste degli accordi governativi stipulati tra il 2008 e 2011, a disposizione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Vi sono poi 1.600 lavoratori del settore finanziario, aventi diritto ad accedere a fondi di solidarietà; 7.400 prosecutori volontari, (con ultimo versamento contributivo volontario), con pensione avente decorrenza nel 2014, secondo i requisiti della precedente normativa; 6.000 lavoratori cessati entro il 31 dicembre 2011 in ragione di accordi individuali e collettivi, con pensione avente decorrenza sempre nel 2014.
Vorrei far notar che, utilizzando come indicatori i dati dell’anagrafe della cassa integrazione straordinaria e stimando i beneficiari di alcuni accordi di mobilità, si intercettano non soltanto gli accordi governativi, ma anche gli eventuali accordi regionali, territoriali o aziendali. Ovviamente, un dato più preciso riferito a questi ultimi richiederebbe un loro censimento presso le sedi che ne hanno visto la firma. Passando alle ipotesi di soluzione, credo che queste dovranno tener conto delle diverse platee descritte e delle loro rispettive peculiarità, e non necessariamente consistere per tutti in una deroga alla nuova disciplina pensionistica. Occorre anzitutto essere pienamente consapevoli dell’onere che il ripristino dei vecchi requisiti per l’accesso alla pensione di questa nuova platea di lavoratori comporta e della corrispondente sottrazione di risorse rispetto ad altri possibili impieghi, magari egualmente meritevoli di attenzione sotto il profilo sociale. Oneri e coperture dovranno perciò essere attentamente vagliati.
La strada che era stata indicata nel decreto milleproroghe di finanziare l’intervento soltanto ricorrendo ad un aumento dell’aliquota contributiva a carico delle imprese, per esempio, determinerebbe un aumento del costo del lavoro, in Italia già strutturalmente troppo elevato, e quindi si porrebbe in contrasto con l’obiettivo di aumentare l’occupazione. Il Governo si è già ripetutamente espresso manifestando l’intenzione di salvaguardare innanzitutto i lavoratori interessati da accordi collettivi, in specie sottoscritti con l’ausilio dello stesso Governo, attraverso il Ministero del lavoro e quello dello sviluppo, dato che l’approdo alla pensione al termine della mobilità era in questi accordi considerato elemento essenziale per la loro stessa conclusione. Per altre categorie la salvaguardia potrebbe riguardare coloro che maturano il diritto entro il 2014 o che hanno superato una certa soglia di età.
Per quanto riguarda i lavoratori meno anziani, il mix delle soluzioni può muovere dall’estensione del trattamento di disoccupazione a formule di sostegno dell’impiego di queste persone: per esempio, con incentivi contributivi e fiscali nella direzione indicata dallo stesso disegno di legge di riforma del mercato del lavoro. Non vanno esclusi la partecipazione su base volontaria a lavori di pubblica utilità, che possono essere gestiti dagli enti territoriali, utilizzando loro fondi, né, previo accordo con le parti sociali, l’uso dei fondi interprofessionali. Da ultimo, sempre nella valutazione del costo collettivo e dell’impatto sul trattamento previdenziale del singolo lavoratore, si potrebbe considerare di ricorrere ad una norma per estendere il contributivo pieno anche per gli uomini – già in vigore per le donne – come opzione di scelta da demandare a lavoratore e azienda. Si tratta di ipotesi di lavoro su cui il Governo vuole confrontarsi con il Parlamento e con le parti sociali.
Confermo pertanto l’esigenza di un confronto serrato con i diversi interlocutori per individuare gli interventi più appropriati, ma anche per istituire una sede permanente di monitoraggio sui dati quantitativi e sulle situazioni di criticità che possano emergere, così da approntare misure tempestive che prevedano anche interventi di ordine finanziario modulati nel tempo. Vorrei svolgere, in conclusione, alcune considerazioni che vanno oltre la contingenza di cui ci stiamo occupando. La riforma delle pensioni prevede l’allungamento della vita lavorativa dei cittadini di questo Paese, coerentemente con la dinamica della speranza di vita e del miglioramento del benessere e delle condizioni di vita delle famiglie. La nuova cultura del lavoro deve liberarsi dall’idea che, superati i cinquant’anni, ci si avvicini verso un declino progressivo delle capacità e dell’impegno lavorativo, e che pertanto sia impossibile per un sessantenne trovare un lavoro, anche solo part-time. A tal fine occorre fare funzionare meglio il nostro mercato del lavoro, e in tal senso la riforma, ora in discussione alla Camera, è un tassello fondamentale di questo disegno e della nuova cultura che lo deve accompagnare.
Il problema dei lavoratori ultrasessantenni in attività può e deve essere affrontato con interventi articolati che accompagnino questo mutamento di cultura, anche a vantaggio delle imprese e della loro competitività. Queste prospettive erano già presenti nelle mie considerazioni al varo della riforma pensionistica, dei cui effetti sui rapporti di lavoro e sulla vita lavorativa degli italiani non ero certo ignara. La stessa riforma, infatti, prevede che entro la fine dell’anno sia istituita una Commissione per valutare forme di gradualità nell’accesso al pensionamento. A questi strumenti e soluzioni intendo dedicare il massimo impegno nel corso dei prossimi mesi.
Nel ringraziarvi per l’attenzione, lasciatemi da ultimo evidenziare come da alcune parti si vorrebbe che la traduzione di questi principi in cifre, scaglioni e decorrenze su un arco di numerosi anni venisse quasi magicamente fuori entro pochi giorni. Il Governo e io per prima siamo invece molto impegnati a trovare una soluzione e siamo certi che il Parlamento e le parti sociali non faranno mancare il loro convinto e responsabile sostegno