Quando trovarono Calvi
La ricostruzione della mattina del 18 giugno 1982 a Londra, nel libro del giornalista Ferruccio Pinotti
La mattina del 18 giugno 1982, il corpo di Roberto Calvi fu trovato impiccato a una corda legata sotto un ponte di Londra. Calvi aveva 62 anni ed era stato un importantissimo banchiere italiano, al centro di eventi tra i più importanti della finanza e della politica italiana, e sotto accusa per il fallimento del Banco Ambrosiano e per altre vicende oscure e criminali dell’attualità di allora, che coinvolgevano le finanze vaticane e il finanziere e criminale Michele Sindona. Nel 2005 il libro “Poteri forti” (BUR) del giornalista Ferruccio Pinotti propose una ricostruzione di queste vicende (molto contestata dall’Opus Dei, che vi è chiamato in causa intensamente) in cui aveva molto spazio un’intervista con il figlio di Roberto Calvi, Carlo. Questo è il capitolo sulla fine di Calvi, quel 18 giugno.
Alle 7.30 del mattino del 18 giugno un impiegato del «Daily Express» che stava passando sulla riva del Tamigi notò qualcosa di strano: «Mentre camminavo lungo il Tamigi, gettai un’occhiata sul fiume. In un primo momento vidi solo una testa tra i pali di ferro di un traliccio. Mi affacciai sulla spalletta del fiume per vedere meglio e scorsi il corpo di un uomo appeso a una fune color arancio. L’uomo indossava un vestito di ottima qualità».
La River Police intervenne e tagliò la corda che reggeva il cadavere, che venne adagiato sull’asse di legno dell’impalcatura. Nelle tasche, oltre al passaporto intestato a Gian Roberto Calvini, trovarono dollari, sterline, franchi svizzeri per un controvalore di circa 23 milioni. La polizia scoprì subito anche due orologi, entrambi Patek Philippe: uno da polso, già danneggiato dall’acqua, che si era fermato alle 1.52; uno da taschino, fermo alle 5.49. Nelle tasche e nei pantaloni erano state infilate pietre che pesavano quasi cinque chili. Vi erano inoltre diversi foglietti di carta, alcuni dei quali riportavano cifre incomprensibili: uno era una pagina strappata dell’agenda di Calvi, con vari nomi sotto la lettera F: Rino Formica, il ministro socialista delle Finanze; Alberto Ferrari, che aveva fatto parte della Banca Nazionale del Lavoro e della P2. Vi era il biglietto da visita di un malavitoso, tale Alvaro Giardili, ma anche il numero di monsignor Hilary Franco, in Vaticano, così come l’indirizzo a Washington della moglie e del figlio. Ma c’era anche dell’altro. E qui emerge, dalle dichiarazioni di Carlo Calvi, un ultimo e inquietante mistero.
«Mio padre aveva in tasca, quando è morto, un biglietto da visita di un importante avvocato londinese, Colin MacFadyean, un grosso avvocato della City riconducibile agli ambienti dell’Opus Dei. Quando l’hanno trovato, sotto il Blackfriars Bridge, aveva in tasca tutta una serie di pezzi di carta, che furono resi noti dagli investigatori alla Prima Corte del Coroner. Ma non tutte le cose che aveva in tasca furono consegnate alla polizia. Nel marzo-aprile dell’83, quando noi ci siamo presentati all’Alta Corte inglese per domandare di avere una nuova inchiesta e di annullare la prima, mi è capitato uno strano episodio: un giorno vado negli uffici dei miei avvocati a Londra e uno di loro mi chiede se mio padre aveva in tasca il biglietto da visita di un noto avvocato londinese. Poi ho incontrato il giornalista Charles Raw nella sede del “Sunday Times”, dove lui si era creato un archivio sul caso di mio padre. E mi ha raccontato che Paul Foot, un giornalista del “Guardian”, aveva saputo dalla figlia dell’avvocato MacFadyean che Roberto Calvi aveva in tasca quel biglietto da visita, il biglietto da visita del padre. Raw mi disse che Paul Foot non se la sentiva di parlarne.
«Questa storia l’ho saputa un mese prima della seconda inchiesta del Coroner. Fatto sta che il biglietto da visita di MacFadyean non venne presentato in quell’occasione. Allora io ne ho parlato con George Carman, il nostro solicitor, che chiamò l’ispettore White e gli chiese di sapere con precisione e completezza quali fossero le carte che erano nella tasche di mio padre. Fatto sta che durante l’estate dell’83 la storia della manomissione delle carte che erano addosso a mio padre circolava in giro.
«Il giornalista del “Guardian”, recentemente, ha deciso di parlare ed è uscito sul “Daily Mirror” con la storia di questo MacFadyean, dopo di che la polizia ha confermato che loro non avevano consegnato questa carta – il biglietto da visita – perché questo MacFadyean è un personaggio inglese molto in vista e rispettabile.»
«Ora il discorso è molto semplice: mio padre aveva due biglietti da visita in tasca: uno di Alvaro Giardili, che era lo stesso biglietto che aveva in tasca Vincenzo Casillo [il killer mafioso indicato come possibile esecutore materiale dell’omicidio, a sua volta ucciso, N.d.A.] quando lo hanno fatto saltare per aria. Giardili era un camorrista, un malavitoso. Certo, quando mio padre è morto non ha fatto nessun effetto trovargli in tasca il biglietto da visita di un malavitoso; dava invece fastidio che avesse in tasca quello di un importante avvocato della City, titolare di un famoso studio legale attivo in importanti affari e transazioni finanziarie. È come se chi ha valutato le carte trovate in tasca a Calvi avesse detto: “Il biglietto da visita del malavitoso Giardili te lo lasciamo in tasca, l’altro no” e così hanno fatto sparire quello di MacFadyean. È quindi molto importante che la Metropolitan Police faccia una nuova indagine per appurare che genere di “coperture” ci sono state in questa circostanza. Il nome di MacFadyean l’abbiamo ricondotto a quello di Mc Caffery, rappresentante in Italia della banca Hambros di Londra, molto legato a gruppi maltesi che avevano interessi con l’Opus Dei in Spagna. MacFadyean è riconducibile all’Opus Dei. Lui nega di aver mai incontrato mio padre, ma io so che non è così. E queste sono cose che può scoprire la magistratura inglese meglio di quella italiana. Ci sono stati parecchi sviluppi che hanno suggerito l’esistenza di un contatto finale tra mio padre e l’Opus Dei.»
In merito alle modalità della morte, Almerighi fa una considerazione importante: «È da escludere che Calvi abbia potuto raggiungere il punto dove venne fissata la corda sull’impalcatura passando dal greto del fiume. Le acque del Tamigi, tra l’1.40 e le 2.20 coprivano il greto del fiume di almeno tre metri».
Appare quindi inverosimile che il banchiere milanese, dopo aver raccolto le pietre e la corda, si sia suicidato. Si sarebbe dovuto infilare tutte le pietre nelle tasche in modo da poter avere le mani libere, scendere dalla scala e attraversare lo spazio che separava la scala dall’impalcatura, attraversare l’impalcatura camminando o arrampicandosi sino al punto dove era attaccata la corda, trasportare o predisporre la corda per impiccarsi. Il passaggio dalla scala metallica a pioli – che dal parapetto cala verticalmente nelle acque del fiume – alla parte dell’impalcatura più prossima a essa (80 cm) si presenta irto di difficoltà per un uomo anziano, piuttosto corpulento, non abituato a esercizi fisici, oltrettutto impacciato da una zavorra di circa cinque chili, distribuita nelle tasche e addirittura infilata nei pantaloni contro il pube e quindi in stabilità precaria.
I periti hanno rilevato che le scarpe di Calvi apparivano danneggiate sulla tomaia e sulla suola, «un fatto attribuibile all’aver camminato su un terreno sconnesso o irregolare […] si notano piccoli lembi di cuoio rialzati e del pietrisco conficcato nel cuoio. Questi danni potrebbero essere stati prodotti camminando per cento o duecento metri, abbastanza velocemente, su un terreno ricoperto di pietre taglienti della grandezza del pietrisco inferiore al millimetro di spessore».
Calvi deve essere stato indotto o costretto a camminare, nella notte, lungo una riva per raggiungere un piccolo attracco dove era ormeggiata la barca che lo avrebbe condotto alla morte. Forse gli era stato fatto credere che la piccola imbarcazione lo avrebbe trasbordato fino a un punto del Tamigi navigabile dove lo aspettava un’imbarcazione di grande stazza pronta a inoltrarsi in mare aperto. Ma è anche possibile che Calvi sia stato narcotizzato e che gli siano stati rasati i baffi per cancellare tracce di sostanze stupefacenti.
Il giudice Almerighi scrive nella sua ordinanza: «La tesi che ci sentiamo di proporre come improntata alla massima verosimiglianza è quella che Roberto Calvi sia giunto al traliccio allestito sotto il Blackfriars Bridge a bordo di un’imbarcazione. Essendo impensabile, al di fuori di una qualsiasi logica, che Roberto Calvi da solo abbia potuto pilotare una imbarcazione per andare a impiccarsi (l’imbarcazione sarebbe stata comunque rinvenuta vuota) è da pensare che terze persone abbiano trasportato la vittima designata in un punto che, a un conoscitore del fiume, poteva apparire del tutto idoneo alla soppressione di un uomo».
Carlo Calvi ritiene che suo padre sia stato narcotizzato, probabilmente con un batuffolo di cloroformio, e che sia stato adagiato su una barca, come dimostrano i pantaloni che presentano tracce umide di fango. La barca avrebbe risalito il fiume. Poi i killer gli avrebbero passato il cappio al collo e lo avrebbero ucciso sollevandolo e appendendolo al traliccio in mezzo al fiume.
«Pensiamo a uno strangolamento» spiega Almerighi «attuato stando l’aggressore in piedi alle spalle della vittima seduta nell’imbarcazione e colta di sorpresa: le imbrattature riscontrate nella parte posteriore dei pantaloni si conciliano con il contatto con un supporto insudiciato, secondo quanto non è insolito notare in un’imbarcazione addetta al trasporto fluviale. Sulle scarpe sono state poi rinvenute tracce di vernice verde che fanno pensare a una barca – la vernice dell’impalcatura era gialla. L’analisi del corpo ha inoltre evidenziato due escoriazioni lineari sottili sugli zigomi, compatibili con la manovra di applicazione di un cappio al collo da parte di terzi. I due graffi simmetrici e bilaterali richiamano suggestivamente l’azione abrasiva delle unghie di due mani nell’atto in cui il laccio veniva fatto passare rapidamente lungo il capo della vittima per essere poi stretto al collo.»
La stessa rapidità dell’azione e la brusca compressione esercitata sulla carotide avrebbero con ogni ragionevolezza posto Roberto Calvi in grado di non effettuare alcun movimento per difendersi, perché l’improvvisa diminuzione di afflusso di sangue al cervello dà luogo a una rapida perdita di coscienza.
Una volta accostata l’imbarcazione al traliccio, non sarebbe stato poi difficile, in considerazione dell’altezza dell’acqua a quell’ora, alle persone sulla barca annodare la corda e far scivolare il corpo.
I mattoni e le pietre che zavorravano il cadavere ebbero lo scopo di far affondare in acqua il corpo poco più giù dell’attaccatura ascellare, tra la linea mammaria e l’arcata costale, per impedirne la vista e consentire ai killer di allontanarsi dal luogo del delitto.
Il professor Fornari, uno dei periti che ha analizzato la scena del delitto, ha concluso: «Dalla disamina di un’ampia bibliografia riguardante l’impiccamento, da fine Ottocento ai giorni nostri, non è stato possibile reperire alcuna segnalazione che proponga l’eventualità di una persona che s’impicchi lasciandosi cadere in acqua. Calvi si sarebbe dovuto lasciare cadere dopo essersi applicato il laccio al collo, con la possibilità che, a pochi centimetri dal pelo dell’acqua, si trovasse un tubo dell’impalcatura o un asse sporgente della stessa, ovvero qualsiasi ostacolo fisso contro il quale egli avrebbe arrestato la sua caduta con assai probabile fallimento del suicidio».
L’orologio che Calvi portava al polso è risultato essersi arrestato alle 1.52 del 18 giugno. La circostanza è di grande rilievo se confrontata con altri elementi. L’esperto Roy Selzer ha affermato che l’orologio da polso Patek Philippe di Calvi «aveva subito notevoli danni dovuti a corrosione, era completamente arrugginito e fermo all’ora indicata, 1.52. […] Il danno sembrava essere dovuto più a un’immersione che a pioggia o spruzzi».
E ancora: «Vi era così tanta acqua nell’orologio che la maggior parte delle parti in ferro, le viti e tutta la superficie di metallo era completamente arrugginita e non solo superficialmente».
Un dato importante, che conferma che il corpo di Calvi è stato immerso intorno alle 1.45. A quell’ora, infatti, la marea si trovava a un livello tale da coprirlo fino a pochi centimetri sotto la zona ascellare. Ciò risulta dalla ricostruzione della posizione in raffronto ai dati informativi forniti dalla Port of London Authority riguardo al livello dell’acqua a quell’ora e confermati dal fatto che il portafoglio che il banchiere teneva nel taschino della giacca proprio in corrispondenza con tale zona era zuppo.
Secondo i dati della Port of London Authority, la crescita del livello delle acque cominciò al ponte di Blackfriars nel pomeriggio, raggiunse il livello massimo alle 23.23 e decrebbe poi progressivamente sino a raggiungere il minimo alle 5.36. Alle 2 la sbarra di aggancio della corda si trovava a 80 centimetri dal livello dell’acqua, il che coincide con l’immersione del corpo di Calvi fino, appunto, a pochi centimetri al di sotto della zona mammaria. Ovviamente, il momento della morte precedette di pochissimo tale immersione.
Le ore successive al ritrovamento del corpo sono anch’esse convulse e sono state ricostruite in sede processuale, in particolare nel secondo procedimento inglese, conclusosi con un verdetto aperto.
Silvano Vittor lasciò di buona mattina la stanza 881 del Chelsea Cloister e si diresse all’aeroporto di Heathrow, dove prese il primo volo per Vienna. Alle 10.30 venne avvertito il console italiano a Londra Teodoro Fuxa che, resosi subito conto dell’identità della vittima, avvertì la magistratura italiana. Alle 4 del mattino successivo arrivarono a bordo di un aereo militare Domenico Sica, il magistrato inquirente sulla scomparsa di Calvi, assieme ad alti funzionari di polizia.
I movimenti di Carboni risultano più frenetici di quelli di Vittor. La mattina del 18 giugno, tramite Odette Morris, il faccendiere sardo provò a chiamare il Chelsea Cloister per mettersi in contatto con Vittor. Carboni si avvicinò più volte al Chelsea e, poiché aveva paura di essere notato, ordinò a Odette Morris di lasciare alcuni biglietti sotto la porta della camera 881.
In uno, afferma testualmente Vittor al secondo processo inglese, c’era scritto: «Ho telefonato molte volte, ma non ti ho trovato. Dimmi che cosa devo fare per trovarti. Telefona ad “Aldo” e “Vitto” immediatamente». Un messaggio cifrato della massima importanza. Chi si cela dietro questi nomi? Personaggi legati all’entourage che ordinò l’esecuzione di Calvi? I pm Tescaroli e Monteleone avanzano l’ipotesi che “Aldo” sia Vincenzo Casillo: il boss Raffaele Cutolo usava questo soprannome per il suo braccio destro.
Carboni, dopo aver trascorso la notte del 18 giugno dai Morris, partì la mattina successiva per Edimburgo con Odette Morris, da Gatwick, forse perché temeva che a Heathrow ci fossero agenti pronti ad arrestarlo. Dopo una notte trascorsa a Edimburgo, la Morris fece ritorno a Londra, mentre Carboni si recò a Zurigo, dove lunedì 21 giugno compì una serie di operazioni bancarie.
Quel giorno si incontrarono a Zurigo Carboni, Vittor e le due sorelle Kleinszig. Ed è lì che i quattro concordarono una versione unitaria dei fatti. Silvano Vittor si costituì il 24 giugno 1982 a Trieste, mentre Flavio Carboni fu arrestato nel Canton Ticino il 30 luglio successivo.
La vicenda Calvi-Ambrosiano ha avuto, dal 1982 a oggi, numerosi seguiti, tra cui quello, particolarmente rilevante, della vendita da parte di Flavio Carboni a esponenti del Vaticano dei documenti (o della copia) contenuti nella borsa di Roberto Calvi. Si tratta di una vasta mole di indagini e di riscontri documentali, oggetto di una copiosa letteratura, che troverà un momento di importante verifica nel procedimento per l’omicido di Roberto Calvi avviatosi nel marzo 2004 e nelle nuove indagini aperte dagli inquirenti inglesi.