I conformisti del politicamente scorretto
Sandro Modeo riflette sugli abusi pigri e interessati della critica al "politically correct", e se la prende soprattutto col Foglio
Diversi anni fa partì dagli Stati Uniti una argomentata e vivace critica a certe formule e tic della “correttezza politica”, che aprì un ricco dibattito ma si fece poi molto tirare la giacchetta da scorretti di ogni genere che vi trovarono l’alibi per demolire anche quel che di indiscutibile e condiviso dovrebbe esserci in molte correttezze. Da noi fu coniato il termine irridente “buonismo”, che divenne un modo dei cattivi per screditare le cose buone dando loro un altro nome, e in generale la correttezza politica o no diventò oggetto di irrisione da parte di chi non ha voglia di seguirla, autocompiaciuto della propria presunta scorrettezza. “Presunta”, perché come spiega Sandro Modeo sulla Lettura (prendendosela soprattutto con le declinazioni di questo atteggiamento praticate sul quotidiano Il Foglio), i critici del “politically correct” spesso sono i primi a ricorrere a moralismi e rigori su temi alterni.
Come un logo sempre più invadente, il «politicamente scorretto» si è ormai rovesciato, specie in Italia, in nuovo conformismo. Chiunque — liberando qualche sfogo umorale — può ricorrervi come a un’autocertificazione di teppismo intellettuale, senza rendersi conto che un’eresia di massa diventa presto ortodossia.
Per capire come si sia prodotta questa torsione, misto di snaturamento e inflazione, bisogna risalire al 1993, anno in cui — in opposizione all’altra metà campo, cioè al «politicamente corretto» imperante in certi atenei americani, come la University of Michigan di Ann Arbor — prende il via il famoso talk show di Bill Maher, Politically Incorrect; e in cui, soprattutto, esce il geniale La cultura del piagnisteo (Adelphi) di Robert Hughes, critico d’arte e storico australiano trapiantato in America.
Fiammeggiante e sarcastico in ogni pagina, il libro di Hughes attacca il «politicamente corretto» a partire dalla scorza lessicale, da quella «Lourdes linguistica» dove ci si illude che «il male e la sventura svaniscano con un tuffo nelle acque dell’eufemismo».
Chiamare i negri «afroamericani» e gli omosessuali «gay», o trasformare ciechi, paralitici e bassi di statura in «non vedenti, non deambulanti e verticalmente svantaggiati» (acme patafisico il «New England Journal of Medicine», che propone «persona non vivente» al posto di cadavere), significa devastare la lingua «senza smuovere la realtà di un millimetro». Anche se il vero bersaglio di Hughes non sono questi tic gergali, ma la sottostante polpa ideologica, un mix di vittimismo, infantilismo e pseudocultura che confonde per esempio il merito e un sano elitarismo con l’ingiustizia sociale e la discriminazione, o porta certe ultrafemministe a vedere in ogni atto sessuale lo stupro inferto da una società fallocentrica.
Il punto, però, è che Hughes non è meno spietato (anzi!) con il versante conservatore dell’amato Paese adottivo, poiché scorge il «politicamente corretto» anche sulle bocche di tanti uomini del potere politico-economico. Di nuovo, tutto parte dalla velatura ipocrita della perifrasi (definire i crolli in borsa «ripiegamento del capitale azionario» e i licenziamenti di massa «ottimizzazione aziendale»), con la retorica della vittima capovolta in quella del boia misericordioso. E di nuovo, il vero bersaglio è l’ideologia sottesa, una visione cristiano-reazionaria composta da «correttezza patriottica» e mistica della famiglia, compendiata nel dogmatismo fanatico e antiscientista della destra evangelica e nel distruttivo laissez-faire di Reagan e Bush sr. (quello di Bush jr. doveva ancora venire). Ma lo stesso contrappunto vale per la specifica dimensione culturale, con le irrisioni simmetriche delle università liberal (enclavi di «astratta lamentazione» neomarxista e post strutturalista) e del presunto carattere «apolitico» di istituzioni come l’Harvard Business School (con il suo patrimonio di titoli azionari, immobili e consulenze alla Casa Bianca); oppure del populismo progressista (che abbassa i requisiti di ammissione negli atenei per integrare le minoranze) e dell’anti intellettualismo di destra, di origine maccartista, che ha eletto la televisione a «Musa della passività».
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– Luca Sofri: Professionisti dell’anti politicamente corretto