I partiti alla prova dell’AgCom
La candidatura di Stefano Quintarelli all'Agenzia che indirizza il futuro delle comunicazioni e della rete è l'occasione per capire chi bluffa e chi no sul rinnovamento dei metodi della politica
È in ballo nei prossimi giorni la nomina dei nuovi commissari e del presidente dell’AgCom. Messa così, per la maggior parte di noi – persino noi – l’eccitazione tenderebbe a zero: ci sono la parola “nomina” e la parola “AgCom”.
Invece.
Invece è una delle occasioni in cui le ambizioni e le opportunità di cambiamento in meglio e modernizzazione di cose importanti, in Italia, hanno più possibilità. Quindi rivedetela così: che le cose migliorino, che l’innovazione e la competenza guadagnino spazi a scapito della politica politicante e inadeguata, passa da qui. Dalle nomine all’AgCom. Che è – Wikipedia – questa cosa qui:
L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) è un’autorità italiana di garanzia, alla quale è affidato il duplice compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare il pluralismo e le libertà fondamentali dei cittadini nel settore delle comunicazioni e radiotelevisivo
Ora, questa cosa qui che orienta e regolamenta quello che succederà con la televisione e internet, è stata governata fino a ieri da un signore di 77 anni – Corrado Calabrò – di lungo corso negli apparati dello Stato e le cui opinioni nel campo delle comunicazioni moderne (soprattutto su internet) sono state negli anni passati oggetto di molte perplessità e sopracciglia alzate, per la loro apparente distanza da una conoscenza esperta della materia (e i meccanismi generali di funzionamento dell’AgCom sotto la sua guida sono stati ben raccontati da Report). La gestione di uno dei principali terreni di cambiamento sociale è stato un caso da manuale del gap italianissimo tra l’attualità reale e le capacità della politica di padroneggiarla. In ogni caso, il presidente Calabrò ha esaurito il suo mandato, e adesso dovrà essere sostituito, assieme ai commissari (che il governo Monti ha ridotto da otto a quattro).
In realtà, non si tratta di “nomine”: o meglio, il presidente è sì nominato dal capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio, ma i commissari sarebbero “eletti” dal Parlamento. Ogni parlamentare, in due sedute, esprime il voto per due candidati – senza nessuna candidatura ufficiale, si può scrivere il nome di chiunque – ma il sistema prevede nella pratica che i partiti si accordino su quei quattro nomi e diano mandato ai propri parlamentari di votarne due alla Camera e due al Senato. L’accordo può essere messo a rischio solo da improbabili forzature da parte di partiti che non volessero aderirvi (ma andrebbero incontro a sconfitta certa) oppure da fronde cospicue altrettanto improbabili allo stato attuale delle cose: da questo viene la difficoltà a chiamarla “elezione” piuttosto che “nomina” da parte delle segreterie. Una sorta di versione concentrata del Porcellum, microliste di fatto bloccate decise dai vertici dei partiti.
Quindi, lo stato attuale delle cose lascia immaginare che tre commissari siano suggeriti rispettivamente da PdL, Lega e PD e imposti dalle loro forze parlamentari. E che il quarto possa essere guadagnato dalle forze alleate dei partiti minori, Terzo Polo e IdV, se queste sono in grado di allearsi ancora, dopo la dichiarazione di estinzione del Terzo Polo da parte di Casini.
In questo quadro l’investimento sul merito e sulle competenze per un incarico così importante come quello che sovrintende allo sviluppo della comunicazione digitale e televisiva italiana dei prossimi sette anni dipende da tre fattori possibili:
– l’indipendenza della scelta da parte del Presidente del Consiglio, che nel caso del governo tecnico è un’ipotesi più promettente di quanto fosse fino a oggi (basta ricordare che fino a pochi mesi fa il maggiore editore televisivo italiano nominava il controllore sulla televisione).
– l’eventuale nuova volontà dei partiti di presentare sì uomini “loro” con cui occupare dei posti importanti, ma almeno con curriculum qualificati.
– l’eventuale volontà dei partiti di emanciparsi dal meccanismo dell’occupazione dei posti, dando un nuovo esempio di rinnovamento e meritocrazia e appoggiando un candidato di provata esperienza e stima per quell’incarico.
Plausibilmente, chi tiene a un esemplare rinnovamento dei criteri deteriori che sono stati in vigore finora (si veda la storia della nomina del commissario Martusciello, per esempio) può quindi investire oggi delle discrete speranze nel primo fattore, delle piccole speranze nel secondo, e – qui sta la novità – delle discrete speranze nel terzo.
E questo si deve a un fatto nuovo: nel sistema è entrata imprevista la candidatura di Stefano Quintarelli. E ha cambiato le cose.
Stefano Quintarelli è uno stimato e qualificato professionista che si occupa di nuove tecnologie da tanti anni (lui ne ha 47): dall’anno scorso è direttore generale dell’Area Digital del Gruppo 24 Ore, ma prima ne ha fatte molte altre e così lo descrive Repubblica raccontando la sua candidatura all’AgCom (e intervistandolo, la migliore presentazione):
Stefano Quintarelli, professione informatico, classe ’65, di Negrar (Verona), è uno dei pionieri dell’internet commerciale in Italia: ha fondato il provider per aziende I.NET, presieduto associazioni per la sicurezza informatica e degli stessi fornitori di connettività, si è battuto per l’agenda digitale in Italia e per la neutralità della rete e attualmente dirige l’area digitale del Sole24ore. Da qualche giorno oltre 11mila persone hanno firmato la campagna online “Quintarelli 4 president” perché sia lui a diventare il presidente dell’Agcom , l’Autorità Garante delle Comunicazioni. Un mandato di sette anni. Il suo curriculum è già stato appoggiato sul tavolo del ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera. Scrivono i promotori a proposito del candidato: “La sua sarebbe una nomina distante anni luce dalle consuete pratiche partitocratiche a cui siamo abituati. Un indipendente vero”.
La candidatura di Quintarelli non è una boutade: in un paese attento al merito e alle competenze sarebbe il candidato più qualificato per il ruolo di commissario dell’AgCom, e questa possibilità è stata avanzata con tutti i crismi formali del caso. E ha ricevuto attenzioni autorevoli ed estese, e molti endorsement, anche dentro il parlamento. Quello che rende anomala la candidatura è che questo non è mai stato un paese attento al merito e alle competenze, e sarà interessante vedere come reagirà di fronte a questo cambio di paradigma.
È probabile che i partiti del centrodestra – quelli che non hanno mai sottilizzato sulla presentabilità delle loro scelte – se ne freghino e stiano solo attenti a conservare un ruolo nell’AgCom imponendo uomini o donne di provata fedeltà. Può darsi che il Partito Democratico riesca a mediare con una scelta più dignitosa – il suo materiale umano è sempre più dignitoso di quello del centrodestra – che però offra le consuete e richieste garanzie di disciplina alle esigenze politiche; oppure viceversa che sappia finalmente assumere una posizione di leadership sul tema del rinnovamento della politica, come gli è richiesto da molti elettori e qualificate minoranze interne, e guardi con disponibilità alla candidatura Quintarelli. Ma è soprattutto ai partiti minori e alla loro maggior duttilità ed esibito spirito “alternativo” che si offre l’occasione di rendere credibili le loro pretese “diversità”. Alcuni di questi hanno già meritoriamente mostrato di volerla cogliere (qui sono raccontate trattative e intrighi aggiornati): gli altri sono quelli che nei mesi scorsi hanno proclamato di più la loro adesione ai nuovi metodi “tecnici” e meritocratici di scelta rappresentati dal governo Monti. Sull’AgCom possono rendere quell’adesione credibile.