Dieci giorni a Macao, Milano
Mentre l'invenzione cultural-architettonica milanese sembra aver perso un po' di smalto di fronte agli sgomberi forzosi, il racconto dei suoi giorni migliori
di ivan carozzi
L’occupazione della Torre Galfa a Milano è partita sabato 5 maggio e si è conclusa, dopo uno sgombero da parte delle forze di polizia, martedì 15 maggio. Dieci giorni in tutto. Estrarre un grappolo di fatti solidi, un mazzo d’immagini a fuoco e incorniciate, da quel ridotto cumulo di tempo, non è un lavoro semplice. Siamo partiti in corteo, sabato 5 maggio, da Piazzale Lagosta. Abbiamo camminato a piccoli gruppi lungo via Galvani, lasciandoci a sinistra via Oldofredi – dove, potenza dei luoghi, morì nel 1982 il boss della Magliana Danilo Abbruciati, durante l’agguato al vicepresidente del Banco Ambrosiano – e sulla destra la spianata coperta del nuovo Palazzo della Regione Lombardia. Poco più avanti, e poco prima del Pirellone, si trova invece la Torre Galfa, un’imponente architettura inaugurata alla fine degli anni ’50, un tempo sede operativa della Banca Popolare di Milano. Dal 2006 la torre appartiene alla Fondiaria SAI, il gruppo presieduto dal costruttore Ligresti: sono 31 piani per 109 metri di altezza, completamente abbandonati da una quindicina d’anni.
Ecco una foto ricordo: durante un’assemblea cittadina, Andrea, uno degli occupanti, nel corso del suo intervento si era come bloccato, aveva fatto una pausa, lasciato il microfono e lentamente sollevato lo sguardo fino a raggiungere quell’ultimo piano, sospeso sulla città come una sorta di idolo, di totalitario slogan modernista, sommo e incombente sopra il cerchio dell’assemblea. Affratellati dalla monumentale magia architettonica del luogo, ciascuno di noi, in quei dieci giorni, si ritrovava puntualmente a voltare lo sguardo su quei 109 metri di vetro, fino a quell’aereo 32esimo piano. Franco Berardi Bifo, docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera, nel corso di una lezione tenuta al secondo piano della torre, aveva sottolineato più volte il salto simbolico contenuto nella liberazione di un grattacielo sfitto. Una scelta, cioè, che non solo alludeva allo spreco, alla questione della crescita senza limiti e della cementificazione, ma che portava fuori dal vecchio “immaginario del sottosuolo, dell’underground, per scegliere la verticalità”. Un unicum nella storia delle occupazioni italiane. La torre, poi, neppure troppo consapevolmente, in modo neppure troppo politically correct, sembrava accumulare, giorno dopo giorno, la carica energetica di un grande simbolo fallico e popolare, spettacolarmente posizionato tra il vecchio Pirellone e il palazzo della Regione. Le novità dell’occupazione della Torre Galfa, cioè di Macao, come poi la torre è stata ribattezzata, non finivano con la scelta del target, del grattacielo.
(le foto della Torre Galfa occupata)
Dalla metà di marzo, un gruppo di “lavoratori dell’arte e della conoscenza” aveva aperto uno spazio su internet e posizionato in vari punti della città dei videobox. Ai cittadini era stato chiesto come avrebbero immaginato un nuovo centro per le arti visive a Milano. L’acronimo – assonante con altri centri per le arti, come il Mambo di Bologna, il Madre di Napoli e il Maxxi di Roma – era già stato individuato: Macao. Ai cittadini era stato poi chiesto d’immaginare, deduttivamente, il significato dell’acronimo e d’inviare, tramite un bando compilabile su internet, le proprie proposte. Come nella campagna per il lancio di un evento, tutto era stato convenzionalmente preparato in anticipo: il logo, i colori sociali, l’immagine coordinata, l’uso dell’accento circonflesso in sostituzione delle ‘A’ in M^C^O, nonché la costruzione di uno cavallo di Troia comunicativo – il bando – mutuato da quel segmento del mondo burocratico-istituzionale con cui artisti e associazioni si confrontano ogni giorno. Si è trattato, nel metodo e nella sostanza, di una rottura rispetto alle prassi comunicative dei movimenti. Lo stesso logo di Macao, nella pulizia grafica, nei contrasti cromatici, si allontanava dalle iconografie del ‘900: ricorda un frammento di scenografia televisiva o di vecchia computer art. Lo sfruttamento pianificato e consapevole della comunicazione visiva, inoltre, era stato costruito su di una messa a valore del genius loci, ovvero di quell’insieme di saperi coltivati a Milano a partire dal dopoguerra. Stavolta non per il lancio di un evento effimero, ma per la costruzione di un bene comune.
Al momento della prima irruzione nella torre, sabato cinque maggio, qualcuno aveva preso il megafono per dichiarare: “Sarà la storia a dire se abbiamo fatto una cazzata”. Di seguito erano entrate un centinaio di persone, che avevano cominciato a scalare la struttura, ad esplorare i piani sgombri, a risvegliare e addomesticare, palmo a palmo, quella enorme, stordita e impolverata bestia modernista, giacente e incredibilmente abbandonata a due passi dal consiglio regionale. La sera, grazie alla voce diffusa sui social network, era affluita una folla, stupefacente e inattesa, di oltre duemila persone. Molti di loro giovanissimi, nati tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. A cavallo della prima e l’inizio della seconda Repubblica. Ciascuno portatore, soprattutto, di un desiderio molto genuino, prepolitico, di fare e di esprimersi. Un desiderio dei vent’anni, che si trova, tuttavia, in contingente sintonia con l’epoca del precariato senza fine e dei talent show televisivi. Sopra le loro teste una cubatura immensa da ricostruire e riempire assieme, ma nella realtà, nella propria città, senza casting, in un edificio sporco, vasto e profondo come la tomba di un faraone, sopra un tappeto di detriti minuti: e senza una giuria o una platea da sfidare, se non quella della cittadinanza.
Nelle mattine e nei pomeriggi seguenti, erano stati predisposti dei tavoli per coordinare l’offerta di manodopera giunta da centinaia di persone: un tavolo di architettura e autocostruzione, un tavolo di logistica, un tavolo di comunicazione, uno di teoria, un tavolo video, un tavolo di gardening, un tavolo per la programmazione eventi ed uno per il bando e la ricezione delle proposte artistiche. Gio Ponti, l’architetto del Pirellone, nel 1961 scrisse a proposito della Torre Galfa: “rispecchia con assoluta schiettezza una realtà umana, quella vitale dell’operosità, dell’intraprendenza, del coraggio fattivo dei milanesi”. Per più di una settimana, fino al giorno dello sgombero, centinaia di persone, di ogni estrazione sociale, con profili professionali diversi, sereni, per niente traumatizzati dall’esclusione sociale sofferta fuori, dalla crisi, in un’atmosfera di gentilezza sconosciuta, avevano lavorato con energia e concretezza alla reinvenzione di uno spazio, un intero grattacielo, da restituire alla comunità dell’arte, della cultura e a tutta la cittadinanza. Così è stato, per giorni, in un crescendo orchestrale – una specie di sottile rumore bianco – che coinvolgeva le zappe in giardino, il lavoro fittissimo sui social media, gli idraulici nei bagni. Ovunque bastava spostare un tavolo o un pannello per alzare una quinta di polvere. Dal marciapiede di via Galvani si poteva guardare dentro l’ufficio del tavolo comunicazione, attraverso le vetrate grigie e impolverate del pianoterra, che creavano l’illusione di uno strano universo amministrativo ancora in ampolla e incubazione.
Una delle ultime sere, uscendo da Macao in compagnia di un amico, spossati dal caos, dalle lunghissime assemblee, ragionavamo sulla fatica terribile e la bellezza rara di assistere alla costruzione della polis, come se avessimo avuto di fronte uno spettacolo naturale nel suo farsi, in cui cellule e forze diverse si separavano, si compattavano, si sceglievano, si raffreddavano. “Potremmo telefonare ad uno di quegli ex dittatori in pensione, con le medaglie sul petto, per chiedergli di atterrare qui in elicottero e offrirgli Macao, chiavi in mano, per riportare un po’ d’ordine”. La democrazia è faticosa, ma poche cose riescono a metterti in contatto con gli altri, a rimuovere filtri caratteriali, a lucidare lo sguardo, seppure per un periodo limitato, come l’esperienza vissuta di un bene comune.
Nelle assemblee e nelle chiacchiere tête-à-tête, avevo registrato la singolare circolazione di un aggettivo, “sano”, con molta più frequenza di quanto mi sia mai capitato nella vita reale. Questa è una cosa sana; questa non è una cosa sana. Le cose stavano girando, la torre sembrava sempre più confidente e rianimata, quando poi, la mattina del 15 maggio, siamo stati sgomberati. Abbiamo riportato tutto all’esterno dell’edificio: la palma gonfiabile di plastica e il tavolo che faceva da infopoint all’ingresso, pieno di frecce e scritte a pennarello, che sembrava illustrato dalla fantasia di una maestra elementare. Si è affermato così uno strano paradosso, un cinico aforisma – riassunto in una delle ultime assemblee – per cui tra l’illegalità che costruisce un servizio per la comunità e la legalità che ha consentito e ripristina lo spreco e l’abbandono, alla fine è proprio la legalità che ha vinto. È stato bello vedere il sindaco Pisapia con noi in assemblea, la sera del 15 maggio; meno bello vederlo mentre si allontanava, un po’ ferito e in allarme, inseguito da un gruppo di giornalisti. In quella fuga scomposta verso la macchina, c’era tutto il magma di contraddizioni che la politica italiana si porta appresso, come una maledizione, anche quando s’incarna in persone coraggiose e illuminate. Qualche giorno dopo lo sgombero, Sarah, una delle tante ragazze che hanno partecipato a Macao, aveva scritto su Twitter: “Macao sta diventando un’operazione di svelamento di meccanismi: come aprire il cofano di una macchina e guardare com’è fatto il motore”.