David Byrne ha sessant’anni

Le migliori canzoni post Talking Heads dell'uomo che si inventò i Talking Heads

David Byrne performs during the Bonnaroo Arts and Music Festival in Manchester, Tenn., Friday, June 12, 2009. (AP Photo/Dave Martin)
David Byrne performs during the Bonnaroo Arts and Music Festival in Manchester, Tenn., Friday, June 12, 2009. (AP Photo/Dave Martin)

Il 14 maggio 2012 ha compiuto 60 anni David Byrne, che all’aspetto è sempre sembrato più adulto e serio dei suoi anni e delle sue invenzioni musicali. Ha inventato i Talking Heads e ne ha fatto una delle band più creative e intellettuali del periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, poi li ha sciolti e ha continuato a fare le cose più varie, mescolando in musica e scrittura leggerezze e analisi sociali. È nato in Scozia ma cresciuto nel Maryland: ha collaborato con Brian Eno, ha vinto un Oscar per la colonna sonora dell’Ultimo Imperatore di Bertolucci, composta con Ryuichi Sakamoto, ha scritto per il teatro e recitato in un film musicale: questo è quello che ne scriveva nel suo libro Playlist Luca Sofri, peraltro direttore del Post, scegliendo le sue canzoni preferite post Talking Heads.

David Byrne
(14 maggio 1952, Dumbarton, Scozia)
A un certo punto decise di sciogliere unilateralmente i Talking Heads: gli altri ci rimasero così e così. Aveva già cominciato a far cose per proprio conto, in particolare un leggendario e ardito disco assieme a Brian Eno. Reputato un genio, esaltato in Italia da Mister Fantasy di Massarini, versatilissimo, gli manca solo di lasciare ai posteri una canzone immortale.

Dirty old town
(Rei Momo, 1989)
Erano i tempi della sbandata latinoamericana: e quindi non stiamo parlando della omonima canzone di Ewan McColl cantata dai Pogues.

Don’t fence me in
(Red hot + blue: a tribute to Cole Porter, 1991)
Se Cole Porter la sentisse, si rivolterebbe nella tomba: si rivolterebbe a destra, e poi tre passi a sinistra, e ancora tre a destra, e vai a schioccare le dita, don’t-fence-me-in…

Girls on my mind
(Uh-Oh, 1992)
Ancora un po’ Talking Heads – e il cielo lo ringrazi –, la citazione di “Once in a lifetime” è nel testo: “you might ask yourself – who is that guy?”.

Angels
(David Byrne, 1994)
Una specie di sequel musicale di “Once in a lifetime”, un piede ancora nei Talking Heads.

Miss America
(Feelings, 1997)
Il verso “I love America” in bocca a David Byrne non fa lo stesso effetto eccitato di quando lo cantava lo svizzero Patrick Juvet. Ma non c’è ironia: solo, l’America amata da Byrne ha qualche complessità, stonatura e contraddizione in più.

Like humans do
(Look into the eyeball, 2001)
Era ancora il 2001 e allegare una canzone di David Byrne al nuovo software audiovideo Microsoft sembrò un’ideona rivoluzionaria. Lo stesso Byrne disse poi che per la promozione del suo disco l’operazione si rivelò un flop completo.

Empire
(Grown backwards, 2004)
Viene da alzarsi e mettersi la mano sul petto, immaginando un’alzabandiera. Solo che l’inno è uno scherzo, presa in giro della destra americana teorizzatrice del potere taumaturgico del capitalismo. “What’s good for business is good for us all.”

Why
(Grown backwards, 2004)
Dice che le cose sono andate così, dalla sua scriminatura al girare dei mondi: era destino, o un accidente, ma nessuna grande filosofia. Almeno crede.

Foto: AP Photo/Dave Martin