Populista è il cinema
Paolo Mereghetti accusa il circo di critici, giornalisti e addetti che a forza di sdoganare film facili e grossolani, ha demolito il valore del buon cinema
Il critico cinematografico Paolo Mereghetti scrive oggi sulla Lettura del Corriere della Sera un’argomentata critica allo sdoganamento intellettuale del genere “basso” e volgare, che alla lunga ha contribuito ad annullare il ruolo della qualità nella valutazione di un film.
Francis Ford Coppola l’ha spiegato con lucidità: la vera svolta epocale per il cinema degli ultimi decenni non è stata né la rivoluzione digitale né tanto meno il 3D, ma «il giorno in cui invece di chiederci se una film era bello, abbiamo cominciato a chiederci quanto aveva incassato». L’ossessione del successo, non come legittima aspirazione al maggior numero possibile di spettatori ma come scalata (la più rapida possibile) delle classifiche. Con tutto il corollario di «droghe» e «stimolanti» necessari ad arrivare in vetta subito: strategie di marketing invece del bocca- a-bocca, occupazione orizzontale dei cinema invece della penetrazione in profondità («quante copie?» è la domanda di rito ad ogni nuova uscita), offerta multipla (dai cibi alle bevande ai gadget. E non solo) invece dell’interesse per il singolo prodotto.
È il mercato, bellezza!, hanno detto in molti, senza accorgersi che in questo modo si cambiavano non solo i modi del consumo ma si stravolgeva anche la natura stessa del prodotto, pensato soprattutto per una fruizione immediata, rapida e possibilmente indolore visto che il weekend successivo bisogna essere pronti (e affamati) per una nuova «scorpacciata» di copie e di sollecitazioni.
Poco male, hanno sentenziato i soliti convinti «modernisti»: il cinema è industria ed è giusto che si evolva con il tempo, lasciandosi alle spalle linguaggi obsoleti e non al passo coi tempi. E se ne facciano una ragione i soliti snob della cultura e dell’impegno, preoccupati perché dietro i numeri poteva nascondersi qualche cosa di più preoccupante. Come il fatto che dei 363 film usciti nel 2011 in Italia, i primi 12 hanno incassato il 30 per cento del mercato, i primi 28 il 50, i primi 180 il 95 per cento. E tra gli altri 183 che si sono dovuti accontentate del 5 per cento del mercato (cioè meno di 5 milioni di euro) ci sono film che hanno vinto ai festival di Venezia (Faust), di Berlino (Una separazione) o di Roma (Kill Me Please), che sono stati applauditi a Cannes (Le nevi del Kilimangiaro) o al Sundance (Un gelido inverno). E che all’estero hanno ottenuto incassi molto, ma molto più interessanti.
Pazienza, la cultura non serve a stabilire nessuno spread (escluso quello del livello di civiltà, ma le Borse se ne disinteressano. E i bocconiani anche), se non fosse che questa specie di sotterranea rivoluzione cinematografica sta trasformando — insieme ad altri fattori, ovviamente — non solo i gusti del consumo ma anche i modi del pensare. E dell’agire. È come quando insegnano a scuola l’origine dei fiumi: un piccolo rivolo si unisce casualmente ad altri, nati per altre ragioni, ma tutti attratti da una certa pendenza del terreno, tutti incanalati da una certa conformazione orografica. E alla fine ti trovi un fiume che nessuno riesce più ad arginare, grosso e impetuoso. Dove puoi solo lasciarti andare alla forza delle corrente.
Quel fiume si chiama populismo.